Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

Cogollo5

(*) Le donne, certe volte, fanno delle cose che c’è da rimanere tramortiti. Tu potresti passare una vita intera a provarci e riprovarci, ma non saresti capace d’avere quella leggerezza che hanno loro, alle volte. Come dire: sono leggere dentro. Forse aveva proprio ragione chi, tra i brogliacci ingialliti dei suoi appunti di poeta, era convinto che il mondo sarebbe imperfetto senza la presenza della donna. Tutto ciò è un’aggravante in più per chi, come me, è nato maschio: «State molto attenti a far piangere una donna, che poi Dio conta le sue lacrime. La donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi perchè dovesse essere pestata. Non dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale. Un po’ più in basso del braccio per essere protetta. E dal lato del cuore: per essere amata» (R. Kipling). Logica vuole, dunque, che la curva più attraente del corpo di una donna rimanga il sorriso. Magari non tutti son d’accordo; tanti, però, su un simile sorriso si sono imbattuti. A pagarne dazio è stato il cuore.
La Sacra Scrittura, per chi ha cuore e fegato di leggerla, è il festival del femminile. Appena sotto il Cristo, il potere è femmina. Innocenti e seduttrici, ispirate e audaci, fidanzate e mogli, concubine, vedove, seduttrici, prostitute, bellissime, terribili, guerrieri, ribelli, ispirate, profetesse, misteriose, introvabili: sono tutte là, nella loro avvenenza. Nella Bibbia sono quasi altrettanto numerose degli uccelli tra le fronde degli alberi. Sono là: all’inizio e alla fine. Danno la luce al Dio, lo guardano crescere, giocare e morire, poi lo risuscitano coi gesti semplici dell’amore folle, gli stessi gesti dall’inizio del mondo, nelle caverne della preistoria come nelle camere surriscaldate delle maternità. M’azzardo a dire con parole mie – cioè sbilenche, forse anche dissacranti – quello che la Scrittura dipinge con parole leggiadre: una bella donna non è colei di cui si lodano le gambe o le braccia, ma quella il cui aspetto d’insieme è di una bellezza tale da togliere la possibilità d’ammirare le singole parti.
A voler ustionarsi tra le parole più belle – tanto d’essere tramandate come sacre -, verrebbe da dire che nella Scrittura le belle donne vengono lasciate agli uomini senza immaginazione. Il top, nella Scrittura, sono le donne vere: quelle imperfette in quanto a bellezza ma autentiche in fatto d’amori. Anche oggi: ogni giorno nascono sulla terra più di centomila donne. Alcune vivono qualche ora, qualche settimana, qualche anno; altre molti anni, anche cento se volete, poi tutte muoiono. E quando sono morte si allontanano tutte con moto rapido o lento, ma certamente inesorabile, dalla mente e dal cuore dei viventi. E’ questa la legge della natura. Già è raro chi pensi alla sua bisnonna o alla trisavola. Anche le donne superiori – che un giorno attirarono su di se sguardi, attenzioni ed entusiasmi – ora non destano più gli applausi di un tempo. La loro fama ha avuto un inizio, un decorso, un declino e spesso un tramonto. Anche i santi presso gli uomini hanno una storia e una fortuna. Per tutte le donne è così: anche i Vangeli son d’accordo: da Eva a Veronica, passando per Giuditta ed Ester, Dalila e Rebecca, Noemi e Agar, Susanna. Tutte lo stesso destino.
Diciamo che son d’accordo fintanto che non vai a toccare i suoi interessi. Che poi, a ben pensarci, l’unico loro interesse – dopo il Cristo e la Trinità – è una donna, che da interesse nei secoli s’è fatta interessante: Maria, la Nazarena. D’altra parte non è poi così difficile indovinarne il perchè: chi abita la Scrittura sa molto bene che da quelle parti non vince la donna che corre dietro, né quella che scappa. Vince quella che aspetta: mica tutte son capaci di quest’arte. L’attesa fu il suo forte. Ricordi quel magnifico passaggio firmato da Luca? Appena rientrata a casa dopo quella birbanteria del Gesù dodicenne al tempio, di lei l’evangelista dice: «Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). E Gesù cosa faceva? Tentava di fare il bravo ragazzo, a dar retta ai Vangeli: «Cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). In parole povere: Gesù faceva il figlio, Maria faceva la mamma e Giuseppe – mai scordare che dietro ad una grande donna c’è sempre un grande uomo – il papà. Francesco, con una delle sue immagini aguzze, ha detto che in quella famiglia «si lavorava, la mamma cucinava, faceva tutte le cose della casa, stirava le camice tutte le cose da mamma. Il papà, falegname, lavorava, insegnava al figlio a lavorare. Trent’anni» (17.12.2014). Qui da noi qualcuno potrebbe rinfacciare a Cristo tutto quel tempo perso: “Buttare via così trent’anni. Con tutto quello che c’era da fare”. Lui, invece, ha fatto la cosa migliore: per trent’anni ha pensato che cosa poteva dire per non apparire scontato. Poi in tre anni sorprese il mondo: dopo duemila anni di quei tre anni stanno ancora discutendo. Sono nel pensiero di tutti.
Lei c’era anche quella volta, insomma. E dentro quel verbo d’evangelista – «serbava», il tempo lungo dell’imperfetto: giorni e mesi, stagioni e annate – se ne sta racchiuso più di un decennio della vita di quella madre. Dodici anni a fare cosa? A custodire tutto ciò che le era attorno: la Parola di Dio, le parole non capite del Figlio, le risposte brusche del marito carpentiere, i fatti che la stupivano, gli eventi che la impensierivano. I semi seminati e non ancora sbocciati. E’ tutto in un canto a lei dedicato: «Io vorrei tanto ascoltare da te quello che pensavi (…) Io vorrei tanto sapere da te se quand’era bambino, Tu gli hai spiegato che cosa sarebbe successo di Lui. E quante volte anche tu di nascosto piangevi, Madre, quando sentivi che presto l’avrebbero ucciso per noi». Sono sempre tante le cose che si vorrebbe chiedere a chi sa attendere: per un uomo attendere è perdere tempo, per una donna attendere è imparare l’amore. Quelle cose Maria le tiene nel cuore proteggendole. A casa sua il Vangelo odora di pane, di mani, di fuso e di legno. Di Nazareth e degli affetti. Maria, la donna feriale a affettuosa. Per la quale val bene ciò che pensò uno scrittore francese: «Gli affetti profondi somigliano alle donne oneste. Hanno paura di essere scoperte e passano nella vita con gli occhi bassi» (G. Flaubert).
L’abbiamo vista a Nazareth e subito dopo su e giù per le colline di Giuda. A Betlemme e mentre fuggiva in Egitto. In pellegrinaggio verso Gerusalemme e, tornando, a zigzagare alla ricerca del Figlio perduto. Poi per tanti anni scomparve: visse nascosta, da sposa, da madre. Imbarcatosi il Figlio, s’è messa alle sue calcagna, sempre presente e mai invadente, nemmeno mai doma: alle nozze di Cana, sulla strada per Nain, fuori dalla sinagoga di Cafarnao. Ancora a Gerusalemme, lungo i tornanti del Calvario a vedere passare suo Figlio, sotto la Croce a vederlo urlare e spirare. Poi stretto tra le braccia, a conservarne la memoria nel giorno di sabato, il giorno ch’è rimasto proprietà privata delle donne. Risorto che fu, Lui le dette un saluto di fuggita e poi risalì al Cielo. Anche lei salirà al cielo: l’ultimo privilegio di chi seppe fare spazio nei suoi sogni ai sogni di Dio. Ch’era anche suo Figlio. Alla fine di tutto, però, ti rimane forse una curiosità addosso di tutta questa storia di sapori e di imbarazzi: quand’è che l’han vista per l’ultima volta di persona? O, per lo meno, qual’è l’ultima volta che nella Scrittura si parla di lei?

Cogollo3

Nel cenacolo. Sul nascere della Chiesa

Qui ti volevo portare stasera. Quasi per un ultimo saluto, per farle un inchino, magari anche solo per dirle un grazie sul calare di maggio: il mese delle rose e di Maria. Eccola qui l’ultima volta che gli evangelisti l’hanno vista di persona. Pochi giorni fa, tra le altre cose. Ricordi quei quattro discepoli storditi ch’erano rimasti col naso all’insù appena fuori Gerusalemme? Noi c’eravamo fermati là durante la Quaresima. La storia, però, nel frattempo è andata avanti. Li han svegliati quegli uomini – «Uomini di Galilea, perchè state a guardare il cielo?» (At 1,10) – e loro han dovuto tornare ai loro posti di combattimento. Son rientrati di tutta fretta a Gerusalemme in attesa della Pentecoste che loro, tanto per cambiare, mica avevano capito cosa fosse e a che cosa servisse tutto quel ben di Dio di Spirito. E, guarda caso, con loro c’è lei. Senti, è quasi di sfuggita: «Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di Lui» (At 1,14). In quegli attimi frenetici che stanno per esplodere, sta nascendo la Chiesa: con i discepoli, guarda caso, chi c’è? C’è Maria: eccola che torna a farsi vedere. Come un fiume carsico che ogni tanto scompare per poi riapparire ancor più copioso d’acqua. L’avranno chiamata mamma pure loro? Perchè no? Io me l’immagino così quei giorni, gli ultimi giorni vissuti assieme tra di loro. Con lei che se li stringe al petto, li accarezza a lungo ogni volta, non teme di dare loro una benedizione all’occorrenza: come per chi sta partendo per un lungo viaggio. Ti pare, poi, di vederla raccogliere e custodire questi discepoli impauriti ma non rassegnati, proteggendoli con la sua tenerezza di madre. Sembra che sia lì a tenerli d’occhio, a far loro coraggio, forse ad interpellarli: “Come va? Come stai?”. Una mamma tiene la mano dei suoi bambini per un po’ di tempo, poi li lascia andare. I loro cuori, però, li tiene per mano sempre. Ovunque.
Chissà quante volte l’han vista coi loro occhi tornare dal lavatoio col mal di schiena o sovra pensiero perché Giuseppe vedeva diradarsi i clienti nella sua bottega. Non si sarà mai vergognata di raccontare loro – magari anche solo per consolarli – di tutti quei pomeriggi passati a rivoltare il pastrano di Giuseppe per ricavarne un mantello perché suo figlio non sfigurasse tra i compagni di scuola. Di tutte le porte alle quali avrà bussato chiedendo qualche giornata di lavoro per il suo Gesù. Le moglie dei pecorai, per un panno cucito dalle sue mani veloci, barattavano con lei lane e formaggi. Le vicine di casa non s’accorsero mai del mistero nascosto in quella vita apparentemente così terra terra. Ne’ le contadine di Nazareth sperimentarono in lei quelle prese di distanza con cui spesso chi fa carriera mortifica i compagni di un tempo. Andava con loro al mercato. Tirava come loro sui prezzi. Usciva con le altre sulla strada – dopo gli acquazzoni d’estate – per arginare i torrenti di pioggia. E nelle sere di maggio intonava nel cortile canti d’Oriente, ma senza sovrastare nessuno. Umile.
Ecco perché dodici uomini, sani e di robusta costituzione, quando erano pensierosi non trovavano di meglio che andare da lei. E lei a rincuorarli tutti: “Non aver paura: io ci sono. Lui ci sarà sempre: non ci perderemo mai più”. Secondo me, pure di Giuda lei mai s’è scordata. Chissà quante volte avrà carezzato pure lui, quante volte avrà sudato per capire quel suo sguardo, quei suoi pensieri, quelle diavolerie che gli tormentavano il cuore. Quella sua voglia matta d’amare il Maestro e di non riuscire a condividere appieno il suo folle sogno di conquistare il mondo da una croce. E’ strano il cuore di una madre, «è un abisso in fondo al quale si trova sempre un perdono» (H. de Balzac).
Capisci, dunque, perchè son quasi certo che i primi a chiamarla mamma siano stati proprio loro? Perchè mamma non è solo chi ti ha messo al mondo ma chi continuamente ti ricorda il volto che hai: chi, senza mai stancarsi o arrendersi, tira fuori il meglio di te dal tuo profondo. Quando meno te l’aspetteresti: quando, magari, nemmeno tu più ci credi. Maria, quei figli di suo Figlio, li ha amati senza mai possederli. E loro hanno ricambiato meglio che han potuto. Io quel giorno non c’ero, ma son convinto che loro hanno dato il meglio di sé: c’era Maria che faceva loro compagnia. Che gioia – e che pace – sapere che il giorno nel quale è nata la Chiesa c’era la Donna che un giorno la Chiesa chiamerà Madonna, la mia donna. Quel giorno i discepoli si sono inventati un linguaggio comune, si son messi d’accorso sullo stile e sui comportamenti, hanno costruito il loro destino. Il nostro destino. Quel giorno io non c’ero, però c’era Maria. E a me questo basta per sapere che la mia Chiesa è nata sotto una buona stella. E’ nata nel nome della Madre.
Lei c’era e i discepoli l’ascoltavano, ne rimanevano sedotti, pendevano dalle sue labbra. Un po’ la temevano anche: non paura o terrore, ma quel timore che ti prende in fronte alle cose piene, agli umani tutti d’un pezzo. Alle donne di Dio. Gli uomini hanno paura delle donne. Una paura che viene da lontano. E non è solo paura del corpo, del volto, del cuore della donna. E’ paura della vita, è paura di Dio. Perché tutti e tre – la donna, la vita e Dio – sono vicini. Gli apostoli avevano capito che la differenza tra loro e Maria non era di sesso (dodici maschi più Uno e una sola Donna), ma di posizione: gli apostoli a Gerusalemme avevano un posto, una posizione.
Maria, come tutte le donne veramente donne, non occupava nessun posto: era ovunque, dappertutto. Nei Vangeli “Madre” è l’altro nome di Dio, messo lì, sui davanzali di ciascuno. Sulle labbra e sui cuori di tutti.
Di chi lo vorrà. Pronto per essere usato.

Cogollo4

Donna. Di vigilia Lei, di festa Lui

Quando l’evangelista Luca saluta Maria – concedendole l’ultima menzione – ha già finito di scrivere il suo Vangelo. Il suo Vangelo finisce con gli apostoli che tornano a Gerusalemme. Luca, però, è anche il pittore che ha messo mano agli Atti degli apostoli, il diario di bordo della prima chiesa nascente. E’ proprio qui, all’inizio del suo secondo racconto, che Lui parla di Maria. Il che, se ci pensi, è fantastico: gli Atti non parlano della vita di Cristo, ma di come i discepoli si son organizzati per portare avanti l’avventura del Maestro. Lui non c’è più, però ha lasciato sua Madre. I discepoli stanno prendendo in mano le redini, ma «insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù» (At 1,4). Lui è andato ma non li ha lasciati soli: arriverà lo Spirito. Nell’attesa – il tempo tra l’Ascensione e la Pentecoste – lascia lei, sua Madre. Come garanzia, come compagnia, come presenza affidabile. Sempre alla stessa maniera dei tempi in cui Cristo era all’opera. A quei tempi nelle feste c’era Lui, nelle vigilie al centro stava Lei. Così anche dopo: il giorno di Pentecoste ci sarà Lui, nei giorni di vigilia rimarrà lei. Io, Maria, amo ricordarla sempre così. Con quell’avverbio cucito addosso: «Insieme».
Eppoi con quella bellezza di Galilea a dipingerle il petto. Ad essere sinceri il vangelo non dice nulla del volto di Maria. Come, del resto, non dice nulla del volto di Gesù. Sai, forse è meglio! Così a nessuno di noi viene tolta la speranza di sentirsi dire un giorno, magari da un viandante di passaggio: “Lo sai che rassomigli tutto a tua madre?”. Maria, comunque sia, dovette essere bellissima. Io non ti parlo solo della sua anima: limpida al punto che il Figlio si specchiava volentieri. Parlo del suo corpo di donna. La teologia quando arriva qui si blocca, sembra quasi sorvolare sulla sua bellezza. La lascia celebrare ai poeti, musicare ai musicisti, pennellare dagli artisti, elogiare dal popolo. Ma la teologia non va oltre. Non si sbilancia. Tace sulla bellezza di Maria. Per pudore? Per rispetto? Forse perché preoccupata di ridurre l’incanto di lei a delle sembianze umane. Eppure il Vangelo è chiaro sulla sua bellezza. L’angelo la dichiara checaritomène nel primo annuncio. Che in italiano letterale si tradurrebbe con “graziosissima”, “piena di grazia”. Cioè potente, giacchè il vero potente è colui che ha se stesso in suo potere. Il santo Francesco Forgione, meglio noto con il nome di Pio da Petrelcina, era solito dare un suggerimento ai suoi penitenti: «Quando si passa dinanzi a una immagine della Madonna bisogna dire: “Ti saluto, o Maria. Saluta Gesù da parte mia”». Da parte mia, però me lo saluti tu.
Attenzione, allora, a sbeffeggiare la Chiesa. In quel quadro c’è anche la firma di Maria: far meglio di lei è da farabutti solo al pensarlo. Un giorno fecero un’osservazione a padre Henri De Lubac: «Voi, padre, dipingete la Chiesa soltanto in bellezza, voi la contemplate in ideale quale dovrebbe essere, quale Dio la vuole, quale è nei vostri sogni». Lui, uomo che soffrì moltissimo per la causa della sua Chiesa e che soffrì moltissimo perchè incompreso dalla sua Chiesa, rispose da genio qual era: «Niente affatto. Io la mostro, e ancora molto male, quale è nel suo mistero, cioè nella sua realtà più reale, ma agli occhi della fede. Io non nego le miserie d’ordine vario, morale o d’altro, che in ogni tempo l’hanno afflitta e che l’affliggono oggi in ciascuno di noi. Io le affermo, io le proclamo, io ne enuncio il paradosso e lo scandalo inerente alla sua missione stessa. Ma descrivere questa miseria minutamente, mettere in mostra le sue piaghe non farebbe avanzare minimamente la conoscenza del mistero della Chiesa (…) E poi la Chiesa siamo tutti noi, sono io stesso; con quale diritto mi metterei fuori dal quadro? Io, peraltro, non ho nessuna voglia di fare la mia confessione pubblica» (H. De Lubac).
Almeno una volta al giorno bisognerebbe dire grazie Maria. Non si sa perché, però qualcosa ci dice di farlo.

Cogollo2

Conclusione. E’ affare di poeti

Dicono gli esperti che, sul punto di morire, dalla nostra mente scompaiono tutti: i figli, il marito, il padre, gli amici, i soldi… In quell’ultimo istante, raccogliendo le forze rimaste, il cervello mette a fuoco soltanto lei: la mamma. Non so se tutto questo sia vero. So però di aver assistito alla morte di un vecchio, reso duro dalla vita, carico di rughe e di fatica che, morendo sussurrò: “mamma”. D’altronde, quando avvertiamo un pericolo improvviso, l’istinto ci fa gridare: “mamma mia!” Hai mai visto la pubblicità? Madri che sono in attesa con il loro commovente pancione, madri che puliscono sederini, che spalmano cioccolata e formaggini, che scelgono prodotti genuini, che comperano carte igieniche morbide e tonni teneri che si spezzano con un grissino, che lavano con gioie le magliette zozzissime del marito, che stendono al sole lenzuola più bianche di quelle della vicina, che strofinano pavimenti fino a potersi specchiare, che seguono con occhi lucidi i figli che si sposano, che controllano se le nuore sanno cucinare la carne in scatola. Anche i cantanti, quando vogliono andare a colpo sicuro, compongono canzoni sulla mamma.
Non so se Edmondo de Amicis, lo scrittore del libro Cuore, conoscesse Maria di Nazareth. Di certo il volto della sua mamma lo conosceva. E, allora, conosceva anche il volto di Maria perché nel volto di ogni donna c’è un frammento di bellezza.

“Non sempre il tempo la beltà cancella
o la sfioran le lacrime e gli affanni:
mia madre ha sessant’anni,
e più la guardo e più mi sembra bella.
Non ha un accenno, un guardo, un riso, un atto
che non mi tocchi dolcemente il core;
ah, se fossi pittore,
farei tutta la vita il suo ritratto!

Vorrei ritrarla quando china il viso
perch’io le baci la sua treccia bianca,
o quando, inferma e stanca,
nasconde il suo dolor sotto un sorriso.

Pur, se fosse il mio priego in ciel accolto,
non chiederei di Raffael da Urbino
il pennello divino
per coronar di gloria il suo bel volto;
vorrei poter cangiar vita con vita,
darle tutto il vigor degli anni miei,
veder me vecchio, e lei
dal sacrificio mio ringiovanita”.

(E. De Amicis, Se fossi pittore)

La mamma è quella persona che vedendo che i pezzi di torta sono quattro e le persone sono cinque, dice che i dolci non le sono mai piaciuti. Forse è per questo che a pronunciare la parola mamma la bocca bacia due volte.
Per pronunciare “Mamma Maria” addirittura tre. Il giusto tributo per chi, come un girasole, seppe sempre da che parti voltarsi.
“Ti saluto, o Maria. Saluta Gesù da parte mia”» (Padre Pio da Pietrelcina).

 


Grazie a tutti/e. E’ stato un viaggio lunghissimo e meraviglioso
(*) E’ il testo della meditazione Il girasole di Nazareth tenuta a Cogollo del Cengio (VI) il 28 maggio 2015.
La pubblico perchè mi piacerebbe diventasse un grazie, detto a modo mio, a tutti coloro che mi sono stati compagni di viaggio – o anche semplici amici per una sera – in questi nove mesi su e giù per il Bel Paese. Un pensiero particolare a don Luigi Gatto e alla parrocchia di Cogollo del Cengio che mi hanno ospitato così a lungo da farmi piantare la tenda lassù, ai piedi del Cengio. Adesso il fisico, la mente e il cuore mi chiedono un po’ di cura: li ascolto e mi ascolto. Per poi saper meglio ascoltare e ascoltarLo. Un abbraccio a tutti/e: che Dio benedica i vostri percorsi di vita.

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