Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

La notizia ha il potere deflagrante di una bomba: “L’hanno arrestato!” Una notizia che da trent’anni le frequenze radio e i giornali attendevano di dare. Perchè Matteo Messina Denaro era diventato, nel tempo, il latitante numero uno di Cosa Nostra. Di casa nostra. Arrestato (finalmente): non era nascosto tra le rose di Atacama, nel gelo della Lapponia, nelle foreste umide del Laos, in qualche grotta sperduta della Barbagia. Era a “casa sua”, in quella Palermo che in queste giornate sta narrando, pregando, elaborando il lutto di fratel Biagio Conte. Nella stessa città, negli stessi anni, due storie diverse di protagonismo: un intreccio indecifrabile di bene e male, di chiaroscuri, luci e ombre d’una umanità sempre dubbiosa se farà più notizia celebrare il mistero di chi si ammazza per uccidere o di chi, invece, muore per salvare. Un plauso enorme alle forze dell’ordine, alla magistratura, a quella parte di Stato che, nel silenzio, ci ha sempre creduto, anche quando era più comodo arrendersi. E che all’indomani di ogni sconfitta subita nei suoi confronti, ha continuato a giocare questa partita a scacchi con indefessa applicazione, senza retrocedere di un millimetro: convinti che per vincere una guerra, certe volte, è necessario anche perdere qualche battaglia. Lasciando al tuo avversario l’illusione di avere la vittoria in tasca: una disgrazia altrui, per i più fessi, consolida la propria apparente felicità. Per poi accorgersi, magari dopo trent’anni, di avere una mentalità da boia senza, però, avere il fisico adatto: «Lo splendore inutile dell’ultima battaglia» lo dipingerebbe Éric-Emmanuel Schmitt. Ripeto l’applauso: doveroso, riconoscente, cordiale.

Adesso, però, vinciamola fino alla fine questa guerra contro la merda. Non abbiamo bisogno di rivedere scorrere nei Tg nazionali le scende disgustose dell’arrivo di Cesare Battisti a Ciampino: in quel giorno lo Stato, nella figura delle sue istituzioni più alte, ha perduto l’occasione di vincere con stile. L’arrivo del signor Battisti, contornato da quella gioia dettata dalla rivalsa dei rappresentanti istituzionali dell’epoca, ha tolto la scena a quella che doveva rimanere la più grande notizia: l’estradizione di una persona che, senza venire umiliata pubblicamente, doveva venire consegnata alla giustizia per aiutarla a fare luce sui contrasti di vicende ancora avvolte nella nebbia. Quel giorno, invece, si è scelto di umiliare l’uomo anziché cercare di costruire le condizioni migliori per cercare di trovare una spiegazione. Il male, quando tu lo riduci a caricatura, alla lunga ti restituisce la caricatura di te stesso. Matteo Messina Denaro, quest’oggi, è un boccone appetitoso per chi crede nella giustizia, è una delle vittorie più belle inferte all’omertà: a patto che – nonostante tutto il male di cui lo si accusa e che dovrà cercare di spiegare, sena per questo vederselo cancellare – non gli si tolga quella dignità che lui per primo ha strappato, come un avvoltoio, alla sua città, alla sua Patria, alle sue vittime. La tentazione di farci giustizia da noi, oggi, è altissima, il rischio di chiedere per lui l’impiccagione, la sedia elettrica, la pena di morte lo è altrettanto. Non cercare di capire il perchè di una vita scellerata è la maniera migliore perchè una storia si ripeta: finchè non impareremo a riconoscere che in ognuno di c’è una canaglia e un criminale in agguato, vivremo sempre nella pietosa menzogna che basti arrestare un boss per venire tutti assolti.

Messina Denaro, adesso, ha l’occasione della vita in mano: quel Male al quale lui, nella sua storia, ha giurato amore eterno, potrebbe oggi diventare la sua più grande occasione. C’è un mondo dissanguato che chiede un “perchè”, ci sono madri che piangono figlioli improvvisamente spariti, c’è uno Stato in fibrillazione: c’è una libertà scellerata della quale rendere conto. Tutti chiediamo che venga fatta giustizia, che si accenda la luce, che si stacchi la spina al male. Creiamo, però, (tutti) le condizioni perchè ciò, se l’uomo accetterà, si avveri: ogni dettaglio merita d’essere guardato, analizzato, vivisezionato. Ciò che conta, però, è l’effetto generale: quanto la sua storia, in tutti questi decenni, è diventata una storia collettiva, la storia di altri: la storia di quelli che, in trent’anni, gli hanno affittato casa, cuore, memoria. Una versione maiuscola di tanti piccoli nostri dettagli minuscoli. Nessuno ha il potere sulle circostanze: ognuno di noi, però, ha il potere sulle proprie scelte. Su come decide di trattate un signor boia quand’è (finalmente) nelle sue mani, visto che in Italia «non è ammessa la pena di morte» (art. 27 della Costituzione Italiana).

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