Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

grieving-mancloseupfrontDue notizie, tra le altre, sono passate sugli schermi e sulla carta stampata, in questi giorni. Morto per overdose (a quanto pare) il figlio di Sylvester Stallone. Morta a due anni, per meningite, Amber, la figlia più piccola del calciatore del Palermo Igor Budan.
Due notizie completamente diverse. A partire dall’età: ampiamente maggiorenne il primo, assolutamente piccola la seconda. Per overdose il primo, per meningite la seconda. Morti diverse, storie diverse, ma con una somiglianza: sono figli famosi che, con la loro morte, hanno segnato la vita dei loro genitori, perché è difficile pensare a un dolore più grande di quello di chi si ritrova a dire addio a un figlio, qualunque sia l’età di quest’ultimo.
Due fatti statisticamente irrilevanti, dal momento che accadono sulla terra a ogni latitudine e altitudine, da quando esiste l’uomo sulla terra. Non sarebbero normalmente notizie degne neppure di un piccolo trafiletto in ultima pagina, a meno che non si parli di un breve necrologio a pagamento, che non si nega a nessuno. Perché? Presto detto! Da che mondo è mondo, la gente nasce, cresce; poi – chi prima e chi dopo – tutti si finisce sottoterra. Dal punto di vista fisiologico, altro non è che nella natura delle cose questo ciclo vitale che ribadisce la nostra appartenenza al regno dei viventi. Siamo noi, che con la nostra mente e la nostra sensibilità abbiamo aggiunto (in modo posticcio) alcuni capisaldi. Come ad esempio che sia ingiusto che sia una madre a sotterrare un figlio e non viceversa. O, più genericamente, che sia inconcepibile e inaccettabile il dolore dei più piccoli, dei più innocenti, di quelli che sono (nel pensiero comune) considerati “incolpevoli”: i bambini. Da qui nasce l’inconciliabilità dei bambini con la sofferenza, all’occhio dell’adulto.

Ovviamente dal punto di vista della sensibilità e del naturale senso di protezione che i più piccoli suscitano in noi, è comprensibile. Ma dal punto di vista razionale, è innegabile che si parta da un punto di vista sbagliato. Parlare in questi termini del dolore e della malattia suggerisce una visione che ne fa delle “punizioni”, poiché sono le punizioni che si abbattono su chi ha delle colpe che noi sosteniamo i bambini non abbiano.
Dal punto di vista scientifico, mi pare chiaro che questa posizione non abbia alcun fondamento. Potrebbe avere piuttosto delle basi teologiche, nata da quel “cristianesimo della paura” che ha alimentato un’immagine a tinte fosche di un Dio che scende sulla terra non tanto come Salvatore, ma come Punitore. Immagine –  in verità –  abbastanza lontana da quella che ci restituiscono i Vangeli. Allora perché ancora adesso sussiste, nonostante la maggior parte delle persone, se non si considera atea, quanto meno insiste nel definirsi non praticante?
Io penso che ci sia una verità fondamentale innegabile. La scienza spiega il come: i virus, le infezioni, il cancro, i batteri. Ma, di fronte al dolore, alla malattia, alla possibilità di perdere chi si ama, per l’uomo passa in secondo piano il modo, che pure gli interessa. La domanda veramente fondamentale, che arriva alle labbra in modo pressoché incontrollabile è Perché?
Vorremmo poter capire il motivo di tutto. Non ci basta un motivo, vorremo trovare quello profondo, il senso originario che spieghi le cause più recondite, facendoci accogliere una scelta non nostra che ci pare solo una grande, enorme ingiustizia che ci ferisce nell’orgoglio del nostro essere umani. Non si tratta di una ricerca puramente razionale, spesso le nostre domande richiedono “ragioni del cuore”; non meno esigenti di quelle della mente. Anzi, talmente esigenti che, spesso, rimangono non del tutto appagate, lasciando al contempo un’insoddisfazione e una perplessa testardaggine nel continuare a porci domande, inesausti delle risposte finora ricevute.
Alle volte capita – immancabilmente – di provare una certa invidia, unita a una sorta di disagio, al guardare i figli dei vip. Vedere le ville lussuose, un intero parco giochi tematico solo per loro, i vestiti all’ultima moda, le divise delle scuole più prestigiose del mondo, la possibilità di fare sport dispendiosi (scherma, equitazione, golf) già in tenera età. È comprensibile. Si tratta della consapevolezza che ci sono occasioni che una persona normale non potrebbe garantire ai propri figli neppure lavorando due vite. Il disagio nasce da questo: ciascuno vorrebbe essere in grado di garantire il meglio ai propri figli, di andare incontro alle loro necessità, di esaudire i loro desideri. Eppure è innegabile che ci siano impedimenti concreti per cui talvolta certi desideri non sono alla portata di tutti e sono destinati a rimanere sogni inaccessibili.
Questo spiega una precisa forma di invidia nei confronti di quelle persone che, facendo parte del mondo dello spettacolo, riescono a garantire senza difficoltà ai propri figli un tenore di vita alto e apparentemente immune da qualunque preoccupazione. Per chi lo guarda da fuori, sembra un mondo dorato così simile al mondo delle fiabe che si provano dei sensi di colpa quando ci si riconosce non in grado di costruirne uno altrettanto desiderabile per i propri figli. Le foto del gossip ci tramandano famiglie serene e felici che sorridono da Malibu o dalle Hawaii, da uno yatch ormeggiato in Sardegna o sul Lago di Como. E pensiamo con un sorriso inadeguato alla casa affittata in Liguria o alle “vacanze di ripiego” all’Idroscalo….
Accadono fatti come questi, inaspettati o magari “nell’aria”, ma per cui – in ogni caso – non sei mai veramente pronto, perché rinunciare a tuo figlio è una separazione che, anche se prima o poi dovrà avvenire, è sempre troppo grande per poter essere davvero serena e senza conflitto: qui tutto è messo in discussione. Tocchi con mano come i soldi non siano veramente in grado di proteggere. Ti accorgi che non esistono mondi dorati o fatati; ci sono – casomai – costruzioni d’amore che solo grazie a paziente perseveranza possono essere in grado di resistere agli “urti” della vita, spesso più simili a tempeste che sballottano i nostri piccoli vascelli.
L’immensità di questo dolore evidenzia che non esistono confini, non esistono reali e sostanziali differenze. Sì, forse ci sono cospicue differenze di stile di vita (e magari anche di mentalità, di priorità e di valori) quando la diversità di reddito è molto elevata. Ma non è così fondamentale. tolti i fronzoli, non resta che l’uomo. Perché quello che ci caratterizza davvero è il nostro essere profondamente uomini, con il nostro carico di aspettative, con il nostro straordinario e profondo desiderio d’amare ed essere amati, per il quale siamo disposti a lottare anche tutta la vita. Non solo: guardando i bambini, ti accorgi di come sia vero che la felicità sia a portata di mano: perché sono le piccole cose che fanno grande un’esistenza. Piccole gioie raggiungibili senza grandi imprese economiche, solo con la volontà di aprire il cuore e gli occhi alla meraviglia di ciò che ci circonda.

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