Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Mentre frequentavo il liceo classico, uno dei più bei momenti era quando l’insegnante di latino pescava alcune parole dal testo che avevamo tradotto per casa e ci spiegava la loro etimologia ed evoluzione, fino all’approdo nella lingua italiana. Era un piccolo appuntamento che riusciva ad attirare l’attenzione anche dei più distratti e ci regalava un nuovo punto di vista sul nostro linguaggio, che iniziava i suoi primi scontri con le abbreviazioni degli sms.
Tra i vari termini, quello che più m’è rimasto in mente è il verbo ricordare. Anzi, re-cordare, ovvero far tornare/riportare al cuore. Non una semplice operazione di memoria, bensì qualcosa di decisamente più complesso e sfaccettato. Entrano in campo discernimento, emotività, volontà e impulsi etici e religiosi: una vera e propria squadra che guida i passi di ogni uomo nelle varie situazioni.
Far-tornare-al-cuore abbraccia intelletto, sentimenti e vissuto. È un lavoro di cesellatura, richiede impegno per ciò che è stato e ciò che sarà, è attività che fa mettere in moto, dinamicità che smuove. Per questo il contrario di ricordare non è tanto dimenticare, ma s-cordare – “ex-cordare” – portare-fuori dal cuore, trattare il vissuto come un soprammobile. Ridurre il ricordo ad un album di fotografie posto in un cassetto, da mostrare ad amici e parenti giusto nelle grandi ricorrenze e poi via, di nuovo tra la polvere delle memorie. Una strada senza uscita, parole gettate al vento, un insegnamento sterile, questo diviene il ricordare se non passa per mente e cuore, se non lascia un’impronta dentro di noi, se viene celebrato solo perché tutti lo fanno ma poi, il giorno dopo, la vita torna a scorrere uguale a quella di prima.
Cosa vuol dire, quindi, ricordare Giovanni Falcone a venticinque anni dalla sua tragica fine?
Possiamo ricondurre-al-cuore ciò che è stato e ciò che hanno significato quei mesi di maggio e luglio?
Per chi ha fede, non è il male ad avere l’ultima parola.
Sebbene sembri trionfante più e più volte, la macchina del male è un insieme di ingranaggi tanto terribilmente organizzati quanto incredibilmente fragili. È sufficiente anche solo un piccolo granello per dare fastidio, quando addirittura non giunge a bloccare l’intero processo di movimento.
Macinata tra gli ingranaggi di quella macchina del male chiamata mafia, questa è la vita di coloro che si sono spesi in nome di ideali più alti del semplice trionfo del più forte.
Eroismi senza gesta eclatanti o mirabolanti avventure, ma esistenze semplici, guidate dalla speranza di compiere qualcosa di giusto per cui valesse la pena credere e lottare, affinché il progresso di una nazione fosse misurabile non tanto mediante una scala tecnologica, ma etica: una società può dirsi veramente evoluta quando ogni vita è rispettata e trattata con giustizia, quando nessuno viene calpestato per fare da gradino di ascesa per altri, quando la bellezza della libertà ha la meglio sul compromesso morale che fa chiudere gli occhi e rendere complici.
Il male non ha l’ultima parola.
Il seme, anche quello più piccolo, se piantato nella terra buona diventa albero che dà frutto e riparo. Chi crede che, seppellendolo, lo si metta a tacere per sempre dimostra di non conoscere la più semplice delle logiche, che da millenni si perpetua ad ogni passar di stagione.
Il ricordo di Giovanni Falcone – e di Paolo Borsellino e degli uomini della loro scorta – dev’essere attività che non ci lascia in pace, che muove le nostre gambe per continuare a far camminare le loro idee, dinamicità che scuote le nostre esistenze e ci tramuta in terra buona su cui far attecchire quei semi di giustizia e speranza che erano le loro vite. Sembra facile a dirsi, molto più difficile da realizzarsi. D’altronde, se fosse un gioco semplice, forse non saremmo nemmeno qui ad omaggiare un ricordo.
Ma difficile non significa impossibile.
Ci è stato lasciato in eredità il profumo della bellezza, un filo che unisce uomini e idee e non si indebolisce con lo scorrere del tempo finché ci saranno persone che avranno volontà di coglierlo e con esso tessere la tela del proprio quotidiano.


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Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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