1183971831-436Quando nasciamo non siamo soli, nasciamo – necessariamente – da una mamma e da un papà. Anche nel caso in cui non siamo cresciuti da chi ci ha messo al mondo, abbiamo bisogno di qualcun altro per diventare persone. Dalle necessità primarie (quelle comuni a tutti gli animali: mangiare, bere, dormire) fino allo sviluppo del proprio carattere e delle proprie facoltà intellettuali, fisiche e morali, ogni uomo è strettamente dipendente dell’educazione che riceve. Un cucciolo d’uomo non sarebbe in grado di badare a se stesso, anche se lo volesse. Non basta la volontà: l’uomo è predisposto per essere cresciuto in una comunità. Del resto, un proverbio africano recita che “per crescere un bambino, è necessario un intero villaggio”. Tutti concetti che in Occidente sembrano ormai distanti.
Travolti dall’impero del Relativismo, abbiamo ormai dimenticato quale sia il significato positivo della comunità. Senza andare così tanto lontano nel tempo, fino a qualche anno fa le case si affacciavano sullo stesso cortile e mentre una madre stendeva il bucato sul ballatoio, oltre al proprio figlio teneva d’occhio anche quelli dei vicini. E a nessuno pareva cosa tanto strana, anzi era vissuta e sentita come assoluta normalità. Forse anche i muri sembravano meno spessi, sicuramente era anche per noi familiare cosa significasse la comunità, vista come estensione naturale della famiglia. Uno spazio più ampio, a cui estendere i valori coltivati all’interno delle pareti domestiche.
Nonostante questo sia vero come analisi della società, questa è una conquista per il bambino. Pur vivendo in una famiglia, i primi mesi sono dedicati alla scoperta di sé e alle potenzialità degli strumenti che ha nelle immediate vicinanze: il proprio corpo, la propria fisicità e – piano piano – anche il mondo che lo circonda. Eppure, anche dopo aver passato la prima fase “egoistica”, crescendo avrà ancora bisogno di conoscersi. E questa volta sarà una conoscenza più profonda, che riguarderà soprattutto il proprio aspetto immateriale: pensieri, valori, gusti, preferenze, passioni, sentimenti. È il fantastico mondo che abita la nostra interiorità. Una scoperta continua, per essere all’altezza della quale è necessario un lavoro incessante e paziente come quello di un antico cesellatore: lavoro non pagato ma appagante, perché aiuta a realizzare la missione più importante, quella di diventare veri uomini e vere donne.
Alle volte, però, questo meccanismo si inceppa. Nei singoli individui, come nelle società. Alle volte, siamo troppo impegnati a pensare agli altri. Dobbiamo conoscerli, apprezzarli, non denigrarli. Dobbiamo essere accoglienti. Dobbiamo valorizzarli. E allora organizziamo tante cose per loro. Magari ci ripromettiamo anche di ascoltarli, poniamo loro tante domande. E ci dimentichiamo di un particolare. In un dialogo, la vera ricchezza che possiamo ricevere non sono le nostre parole (le conosciamo già!), ma quelle che riceviamo dagli altri e che ci possono aprire la mente su nuovi e più vasti orizzonti. Peccato però che per poterle ricevere, qualcuno le deve dispensare. Ecco allora che prepararsi, lavorare su di sé, tenersi informati, riflettere non sottrae tempo alle amicizie o alle serate in compagnie: al contrario, garantisce di spendere un tempo di qualità con gli amici ed è complice di una conoscenza più profonda e consapevole. Se la mia presenza può essere un arricchimento per l’altro, devo curarla. Non significa (o almeno, non solo!) aver cura del proprio aspetto fisico (anch’esso è – naturalmente – un’attenzione decisiva da riservare a se stessi: presentarsi puliti e ordinati, per quanto possibile, è segno di educazione e di rispetto, per sé e per gli altri): aver cura di sé e conoscersi è forse il modo principale per poter offrire qualcosa agli altri! Per questo motivo, dobbiamo allontanare qualunque senso di colpa che possa far pensare il “tempo per noi” come rubato agli altri. Non è affatto così.

“Non si può dipingere di bianco il bianco, di nero il nero. Ciascuno ha bisogno dell’altro per rivelarsi”
(Manu Di Bango, sassofonista e vibrafonista camerunense).

Non basta tuttavia la conoscenza di sé che uno ha di sé per conoscersi davvero. Gli altri, guardandoci da un’altra prospettiva, spesso riescono a farci conoscere qualche lato di noi che a noi stessi era rimasto ignoto, o di cui ignoravamo le nascoste ed effettive potenzialità.
Ma, mentre la conoscenza di noi stessi si articola, almeno inizialmente, solo sull’identità, la conoscenza dell’altro ha necessità di collocarsi, al contempo, sul piano dell’identità, ma anche su quello della diversità. La prima cosa che riconosco, incontrando lo sguardo dell’altro, è la sua diversità. La prima cosa che posso dire, subito, è “non è me”. In un secondo momento, arriverò a fare, spesso dopo molti anni (ed è più che giustificato: non basta una vita a conoscere se stessi, come posso dire di conoscere un altro?) prima di azzardarmi a descriverlo (identità dell’altro).
Ecco perché Alessane Ndaw asserisce sinteticamente:

“Il dialogo autentico presuppone il riconoscimento dell’altro al tempo stesso della sua identità e della sua alterità”

Identità e diversità coesistono, quando il dialogo è sincero, onesto e autentico. Se faccio solo domande, non dono nulla di me; se parlo soltanto, si tratta di un monologo, nel quale non accetto l’arricchimento che viene dall’esperienza altrui. Solo se io ho un buon grado di conoscenza di me stessa, della mia cultura, della mia tradizione (di tutto ciò che, in poche parole, dovrei con facilità conoscere bene) favorisco, anche nei riguardi del mio interlocutore il raggiungimento del riconoscimento congiunto della divergenza (l’altro non è me) e convergenza (l’altro è uguale a se stesso).
Ancora una volta, si tratta di un’osservazione vera sia a livello personale, sia a livello comunitario (sociale). Tuttavia, qui da noi è difficile comprenderlo perché si è ormai perso il reale significato di “comunità”.
Ma la sua comprensione è fondamentale per non cadere nel tranello del relativismo che porta a un pensiero, a mio avviso, abbastanza ridicolo: “siamo tutti uguali”. Non c’è niente di più avvilente ed impoverente di questa affermazione. No, non siamo tutti uguali. Al contrario, siamo tutti diversi. La diversità è una grande ricchezza e, proprio per questo, sottolinearla aiuta reciprocamente a valorizzare la bellezza propria e altrui.
Basti pensare ad un esempio molto pratico: forse in particolar modo alle donne (ma non credo che, quando capita, agli uomini faccia loro piacere), reca parecchio  fastidio sentire paragoni con partner precedenti. A nessuno piace sentirsi confrontato, perché è come se in ogni confronto si celasse un velato “sei intercambiabile”: perché se io sono come qualcun altro (chiunque sia), non sono così indispensabile! 
Ecco spiegata, allora, l’istintiva repulsione verso quest’affermazione, perché ci fa prendere coscienza, qualora non ne fossimo pienamente consapevoli, che noi siamo davvero unici e irripetibili: proprio in questo risiede la nostra inestimabile preziosità.

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