Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
Napoli e la complessità del reale

«Napoli non è Gomorra»

«Napoli sei tu, non è Gomorra o Mare fuori» ha avuto modo di dire, tra le altre cose, la sorella di Giovanbattista Cutolo.
La realtà ci bussa alla porta, con la sua complessità e aprirle integralmente è difficile, specie se stai seppellendo tuo fratello, morto in circostanze tragiche.

L’antidoto di Giovanbattista

Sì, capisco cos’avrebbe voluto dire, straziata dal dolore. Giovanbattista era un esempio positivo. Aveva 24 anni, amava la musica, suonava il corno e, per pagarsi gli studi al Conservatorio, lavorava come cameriere. In una città, come Napoli, dove le sirene della malvita suonano forse più forte, aveva scelto la via più difficile, quella del sacrificio e della legalità, per inseguire il suo sogno d’inseguire una carriera nel mondo della musica. Per altro, non quello patinato e ormai modaiolo della musica leggera o trap, con la quale puntare ad un successo facile e guadagni alti. No, aveva scelto la via della dedizione, dello studio lento e progressivo, della ricerca di un’armonia con i propri colleghi: la musica che suonava con l’orchestra Scarlatti.

Ma Napoli è anche Gomorra

Tuttavia, anche se posso comprendere che la sorella di Giovanbattista, in un momento senz’altro concitato, abbia detto in modo impreciso qualcosa che non ha saputo esprimere bene, quelle parole possono aiutarci a guardare ad una tentazione possibile. E familiare.

Perché Napoli è ANCHE Gomorra e Mare fuori. Insiema a molte altre cose.

Napule è

Perché, come cantava il compianto Pino Daniele, uno con la napoletanità che gli ribolliva nelle vene: Napule è mille culure. Difficile trovare definizione più calzante. Davvero, Napoli è di mille colori.

Napoli è lo stadio Maradona e il calcio come una fede. È il caffè che non è solo un’offerta, ma un rito di una religione atavica, a cui non è possibile sottrarsi, è il senso di un’ospitalità sanguigna e verace. Napoli è religione e scaramanzia, per cui non riesce a districare l’una dall’altra come i cavi degli auricolari, dopo che li hai messi in tasca.
Napoli sono i mercatini rionali che sanno di popolo, di genuino, di fresco. È la magia, il fascino, ma, al contempo, il sudiciume dei vicoli. È san Giuseppe Moscati e la malasanità. È lavoro precario e disoccupazione, con la criminalità piccola e grande, che si affaccia, come un lupo famelico, alle porte, proponendo soldi facili e veloci, per uscire dalla povertà e dalla disperazione. Eppure, Napoli è anche musica, spettacoli, sogni, desideri, speranze. Il sole, con il mare che luccica ogni sera e ti fa pensare che ogni avventura sia possibile, che nessun buio sia così tetro e che, col giorno nuovo, tutto sarà possibile.

Guardare tutto

Soprattutto, sognare un futuro diverso, radioso e promettente per i figli di una terra, feconda e testarda, che, nonostante tutto, non demorde e rialza la testa.

Siamo chiamati a guardare in faccia il male, a chiamarlo per nome, a non girare la faccia dall’altra parte, né illuderci che sia “poca cosa”. Poco o tanto, il veleno porta pur sempre alla morte. A cambiare, è solo la velocità. Il male va estirpato, mai ignorato.

Napoli e noi

Io non so se Napoli potrà cambiare da com’è. Perché domandarsi se possa cambiare è domandarsi se ciascuno di noi possa farlo. Se si possa cambiare, in modo profondo e definitivo, radicale e trasformante.

L’altra faccia

Sì, tutti abbiamo un’altra faccia…anche se è una realtà difficile da accogliere. Più facile soffermarsi sulla luce, sugli aspetti buoni, sulle nostre capacità e su quanto possiamo dire di saper fare bene. Più che faccia, è la facciata bella, quella con la porta d’ingresso principale. Dove mettiamo le lucine a Natale e le ghirlande a Pasqua. C’è sempre dell’altro, di solito relegato alla porta sul retro, nascosto come si nasconde una refurtiva.

Cambiare. Con la faccia da schiaffi

E allora mi viene da dire: sì, si può cambiare, ma fino ad un certo punto. Perché ciascuno di noi, con l’impegno personale e con l’aiuto della grazia può smussare qualche spigolo, migliorare il carattere, aumentare la pazienza, diminuire l’irascibilità, andare in palestra e diventare grosso o andare a correre e perdere qualche chilo di troppo…

Però. È con la nostra faccia da schiaffi che arriveremo, magari arrancando, in Paradiso. Con la cicatrice di una caduta in bicicletta o di una scazzottata adolescenziale.

Le piaghe di Cristo

Del resto, anche Cristo risorge con un corpo glorioso, ma piagato. Rimane un mistero come possa essere un corpo glorioso. E, nello specifico, come possa essere il corpo glorioso di Cristo. Ma su un aspetto paiono concordare le Scritture: sul corpo del Signore, anche dopo la Risurrezione, rimasero impresse le cicatrici del male subito.

Un’altra possibilità

Allora, forse, Napoli, come ciascuno di noi, potrà diventare migliore. Ma il suo volto rimarrà, inevitabilmente, segnato dalle cicatrici di questa lotta impari, perché il bene, che cresce in silenzio, possa avere ragione del male che, strisciante, si annida nell’ombra, nel tentativo di conquistare il cuore grande e buono di Napoli. E di ciascuno di noi.


Per approfondire:
QN
ADNKRONOS

Fonte immagine: wikimedia commons

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