noon 13Una N come un marchio, un sigillo, sui muri delle case, in Iraq.
E mi tornano alla mente gli Ebrei dell’Antico Testamento che segnavano col sangue dell’agnello gli stipiti, per evitare le piaghe d’Egitto. Un marchio per salvarsi l’uno, un marchio di condanna l’altro.
Un altro dialogo risuona nella mente, quello della Notte delle Notti: la notte in cui il Figlio dell’Uomo fu tradito ai suoi discepoli, in particolare a Pietro viene chiesto se siano “seguaci del Nazareno”: Pietro nega, ma il suo accento lo tradisce. I seguaci della Parola non riescono a nascondersi: chi segue un Uomo che cammina porta impressi nel cuore sabbia, vento, fatica, speranze e sogni di gente di mare, abituata alla pesca, che s’è abituata anche a questa nuova, inedita “pesca di uomini” partita dalla Galilea.
“Nasara” significa letteralmente proprio questo: seguaci del Nazareno. E, naturalmente, ha significato ed intento umiliante, per chi lo riceve.
Gli abitanti della casa che riceve quel marchio hanno un destino segnato, fatto di fuga, di incertezza nel futuro, di paura.
La tensione, naturalmente, si respirava da mesi, il peggio si avvertiva imminente, nell’aria. solo adesso se ne vedono i tragici. Interi popoli in marcia, sotto il sole cocente, su mezzi di fortuna, attraversano il deserto, in fuga da Mosul.
Come il popolo d’Israele in fuga dal Faraone; la storia ripete se stessa: “nulla di nuovo sotto il sole”, perché niente è così nuovo da non poter essere già stato visto. Non l’odio nel cuore dell’uomo, non l’intolleranza, non la paura, la precarietà, l’indigenza, la fame, l’indigenza, il peregrinare senza meta in cerca di luoghi più sicuri.

Di profughi ce n’è a migliaia, se non milioni, in tutto il mondo. Un popolo intero in cerca di pace, sicurezza, solidarietà, fraternità.
Ma, stavolta, c’è qualcosa di diverso. Abbiamo sotto gli occhi quello che cercavamo di non vedere da mesi e forse anni. La persecuzione dei cristiani è più forte oggi è che migliaia di anni fa. forse perché ci sono più persone sulla faccia della Terra, ma i dati sulla libertà di religione non possono più essere un’esagerazione faziosa, di fronte all’emigrazione forzata di migliaia di persone, che lasciano tutto quello che possiedono e si incamminano, senza certezze né garanzie, coi figli in braccio e le poche cose salvate alla distruzione in un sacco, oltre Mosul, oltre l’Iraq, in cerca di un destino migliore e – se possibile – serenità per chi verrà dopo di loro.
Migliaia di persone a cui è negato quanto a noi pare scontato, tanto da sembrare alle volte noioso: poter pregare, poter guardare una croce, poter vivere in una casa, poter dire di credere in Gesù Cristo. Cose banali per noi, cose inimmaginabili, e fonte di umiliazione per un cristiano iracheno qualsiasi. Ma anche egiziano, pakistano, nigeriano o di molte altre nazionalità in cui essere di Cristo è una colpa (vedi: Zenit).
Un popolo che s’ingrossa, in iraq, di altre minoranze: non sono solo i cristiani a fuggire dalla pulizia etnica in corso: sono anche yazidi, curdi, assiri.
Solo nel mese di agosto, si sono contate più di 1200 vittime e i profughi più di 600.000. Numeri allucinanti, che forse riescono a malapena a dare l’idea della tragedia tutt’ora in atto, che si va consumando tra decapitazioni, crocifissioni, abusi sessuali senza contare naturalmente le violenze e gli abusi psicologici di ogni sorta, difficilmente calcolabili, ma facilmente prevedibili in situazioni esasperate e disumane come quella che si è creata in Iraq.
In questi giorni, si susseguono interpretazioni politiche al riguardo dell’origine di questi fenomeni e si rincorrono ipotesi per la ricerca dei colpevoli ultimi di questa triste situazione.
Credo però siano tutte osservazioni, pur comprensibili, ma che io posticiperei. Trovo sia fondamentale centrale l’attenzione sulla situazione di fatto, sugli avvenimenti attualmente in corso e sulle persone coinvolte. Uomini e donne che hanno perso tutto, che rischiano la propria vita nel deserto. A loro si indirizzi innanzitutto il nostro pensiero, la nostra preghiera, la nostra solidarietà concreta.
Ci troviamo per l’ennesima volta spettatori di atrocità indescrivibile, ed è dura rimanere impassibili e muti di fronte a certe immagini, la pena di di donne, anziani e bambini che si avventurano nel nulla pur di trovare qualcosa di meglio, pur di cercare quella pace che tutti cerchiamo e forse mai troviamo.
Aggiungo un pensiero, che magari banale, ma visto da chi viene, un poì di credito glielo darei. Si racconta che San Francesco di Sales rispose, a chi gli chiedesse cosa fare per la pace nel mondo: “Non sbattere la porta così forte!”. testimonianza verace di come siano i piccoli passi di ogni giorno quelli con cui è possibile un cammino, forse mai iniziato o, piuttosto, spesso interrotto negli anni, verso un obiettivo a cui tutti diciamo di tendere, ma che in realtà spesso distruggiamo con le nostre mani: la pace.
Perché se non costruiamo la pace a partire dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dai nostri rapporti più prossimi, come potremmo sperare che varchi i confini degli Stati, vinca l’orgoglio e l’odio atavico tra etnie belligeranti e s’assida, trionfante, dove per secoli ha trionfato la tirannia?
Giusto e doveroso, oltre che germe di speranza per il futuro, è infine ricordare che tanti musulmani si sono schierati contro questa persecuzione, al fianco dei cristiani, alcuni (tra cui una giornalista), comparendo con una croce al collo in segno di solidarietà. una croce, al collo di musulmani. Quella stessa croce che alcuni vorrebbero togliere da colli cristiani, qui in Occidente, per rispetto dei musulmani. Buffo (nella sua drammaticità), come giri il mondo, no?


 Link di approfondimento:

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Avvenire

ilsussidiario

La Stampa

Costanza Miriano

Avvenire 2

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