Come una donna che spalanca la porta di casa e sulla soglia vi lascia una sedia vuota: a disposizione di un passante, come cenno d’ospitalità, piccolo segnale per viandanti affaticati. Dopo un agosto d’altalenanti stati d’animo, Padova torna a mostrarsi per quello che è: città d’arte, d’animo e di cuore. Nonostante tutto, nonostante tanti, nonostante quel ciò che di lei si va dicendo tra piazze, quartieri e periferia. Nonostante l’altro, per l’appunto: il foresto, il diverso, l’inefficiente, lo straniero. Un riapparire amabile proprio sull’inizio di settembre: il mese che «dopo l’estate porta il dono usato della perplessità (…) Pensi e ricominci il gioco della tua identità» – come canta Francesco Guccini nella sua “Canzone dei dodici mesi”. La perplessità che a taluni appare molto simile ad un gesto di scusa, di cortesia, di simpatico charme di fronte a ciò che si vorrebbe dire di lei e su di lei: avversa ai poveri, antipatica del foresto, tremante del diverso. Niente di più stonato: è stato confrontandosi con la povertà nelle sue mille apparizioni che Padova ha costruito la sua identità diventando grande nel campo della santità, della ricerca medica, di un’umanizzazione che il sapere ha reso poi cultura e stile. Padova, città aperta.
Come stasera, con un simpatico raddoppio. Quasi un’esagerazione d’attenzione e d’amore. La sua piazza più bella usata come salotto per la cena “A braccia aperte”. Gli invitati stasera sono loro, quelli che sovente negli altri giorni saranno guardati di bieco, di striscio, con fastidio: i derelitti, gli accattoni, i brandelli di quell’umanità che nei Vangeli rimane l’occasione più ghiotta d’incontrare Cristo. Eppoi il suo prato più celebre reso simile ad uno stadio colorato per l’annuale appuntamento della “Nonsolosport Race”. La passione della corsa che diventa passione per l’umano: quello ferito e ammalato, inefficiente e non competitivo nel mercato: dell’umano che giace dentro le corsie della Città della Speranza e che mai s’arrende. Loro non ci sono: combattono battaglie ben più estreme e competitive. Però ci saranno i piedi di migliaia di uomini e donne che presteranno loro simbolicamente la forza per non mollare, per continuare a strappare speranza ai giorni e futuro alla loro difficile storia. Seduti in piazza o di corsa tra le sue vie, stasera Padova è una città da cartolina: quando per l’umano trascurato e disabile si spalancano le porte di casa, tutta la casa ne guadagna e s’illumina. Di quella luce che apre spazi sconfinati e prospettive inimmaginabili. Alimentando la speranza: ancora giorni, ancora possibilità, ancora compassione. E comprensione.
Cenare con un povero accanto: che puzza, che sanguina, che già domani infastidirà ad oltranza. Correre con un povero nel cuore: che sta morendo, la cui sofferenza è uno strazio, il cui sguardo inquieta persino gli imbecilli d’animo. Ci son sere che somigliano a delle serenate perché t’infondono nell’animo il sospetto che le cose potrebbero cambiare, stanno già cambiando, sono già cambiate. Il cambiamento, magari, ai più è invisibile, impercettibile, minimo: ci son millimetri, però, che narrano di chilometri e chilometri di fatiche, di annate di lavoro, di misteriosi incontri e scontri. Ci sono spazi millimetrici dentro i quali s’incunea l’amore per smantellare i muri più mastodontici: quelli che la gente ha eretto nel cuore e nell’animo, prima ancora che nel giardino di casa propria.
Oggi sarà una splendida giornata. L’amabile cordialità di Padova trasformerà le strade e la sua piazza in un salotto d’intrighi: quello che ospita l’umanità nelle sue più svariate sfumature. Ci sono sere in cui ami la tua città e intuisci il perché delle battaglie di tante donne e uomini che mai incroceranno le braccia a mo’ di resa. Che per nessun motivo smetteranno mai di correre.
da Il Mattino di Padova, 7 settembre 2014