Più che un grande seduttore come il suo predecessore, di Benedetto XVI la storia tramanderà quel pudore quasi monastico, sobrio ed essenziale di un uomo che ha messo al centro di tutto il suo pontificato il racconto della splendida avventura della storia della salvezza. Quasi disturbato dal frastuono disordinato del mondo d’oggi, questo amabile cercatore di Dio ha tentato di spiegare in tutti i modi che il Papa non è una rockstar e non è a lui che si deve guardare: al cuore della storia umana ci sta il mistero del Dio incarnato. Nasceva qui, alle sorgenti di una storia d’amore che il mondo giudicò paradossale e ambiziosa, quel suo continuo invito a tornare all’essenziale, di risalire come salmoni alla sorgente, di riappropriarsi del fascino iniziale di Gesù di Nazareth. Chi lo ha preceduto ha usato il simbolismo dei gesti per far breccia nel cuore delle masse: fu un tripudio colto in istantanea perché il gesto conquista nell’attimo stesso in cui viene compiuto. Benedetto XVI più che dei gesti fu quasi un orafo della parola e la parola chiede tempo per sedimentarsi, interpellare, scuotere e riaccendere i passi dell’uomo. Con lo strumento della parola – affinato dalla contemplazione del Mistero di Cristo – ha invitato l’uomo a fare esperienza di un Dio che per le sue irruzioni s’avvicina più all’indiscrezione di uno straniero che alla discrezione di un familiare: è come se il Papa avesse voluto porre l’accento sulla dimensione di sorpresa della realtà cristiana, quasi un decretare la necessità di lasciarsi sorprendere per diventare veri. Forse anche innamorati, dal momento che la fedeltà è il nome dell’Amore che perdura nel tempo.
La storia la scrivono i vincitori: ragione per cui, forse, questo Papa sarà ricordato per le sue dimissioni piuttosto che per le sue innamorate incursioni dentro il mistero dell’esistenza letto alla luce della Rivelazione. La storia della Scrittura, invece, è l’unica storia scritta da un popolo dichiarato perdente: in quella sconfitta, però, ancor oggi brilla il fascino di una Grazia divina sempre all’opera nel cuore della storia. In Occidente non esiste la cultura del perdente, solo l’esaltazione del vincitore. Ma se è nella sconfitta che si manifesta la gloria dell’uomo, allora il gesto di dimissioni di Benedetto XVI rimane la “lectio magistralis” di un papa-teologo tutto teso a tratteggiare il vero volto dell’uomo. Un Papa che riconosce la sua fragilità e la sua stanchezza è un Papa che ad un mondo condannato a rimanere giovane ricorda la nobiltà della finitezza del limite umano. Letto così, il suo rimarrà uno dei più grandi atti di governo compiuti in secoli di pontificato: se governare è servire e servire è amare, qualsiasi innamorato avverte la responsabilità di non intralciare con i suoi limiti il passo della sua Amata. Fino a lasciarla correre tirandosi umilmente in disparte.
Ci sono incontri che ci cambiano e di essi ce ne rendiamo conto solo molto tempo dopo; nel Vangelo sono gli apostoli stessi ad intuire, a fatti avvenuti, cos’è capitato loro. C’è un’intelligenza nascosta dentro il grembo degli avvenimenti che chiede tempo e pazienza per essere adocchiata e forse anche compresa. Nel suo primo volume della storia di Gesù di Nazareth, Benedetto XVI chiese – assieme alla possibilità di criticarlo – un “anticipo di simpatia” nel leggerlo, senza la quale non ci può essere vera comprensione. Lo chiedeva del libro ma forse era la giusta direzione nel leggere l’intero suo pontificato, quasi che senza un pizzico di simpatia nei suoi confronti, avrebbero prevalso ancora una volta i luoghi comuni. Infatti l’interesse per le sue scarpette rosse ha impedito ad una fetta di mondo di cogliere i piccoli segni attraverso i quali stava preparandosi a firmare una delle più grandi rivoluzioni nella storia della Chiesa.
(da Il Mattino di Padova, 17 febbraio 2013)