Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

stato
Ascoltavo risuonare, seppur lontano, le parole di don Luigi Ciotti nel giorno della memoria delle vittime di mafia: crude, arroventate, da ustione. La memoria è somma di nomi-e-cognomi da non dimenticare, per non dimenticare: sempre, quando l’uomo ha voluto fare dello Stato il suo paradiso, ne ha fatto un inferno. Mentre le ascoltavo ho ripensato alla prima volta che ho sentito pronunciare la parola “stato”: alle elementari, forse alla scuola materna. Subito mi divenne così familiare da sentirlo casa-mia: suscitava il colore della bandiera tricolore, era un appellativo dell’Italia, mi diceva “è anche tuo, l’Italia sei tu”. Sostantivo, memoria e appartenenza. Quando, poi, ho iniziato a leggere la storia della mia patria dal sottosuolo della galera – ch’è postazione privilegiata per l’analisi radiologica del vivere umano – il sostantivo “stato” ha mutato veste, anche risonanza: da nome si è fatto verbo, nostalgia, rimpianto. Rabbia, un’iradiddio di sdegno: “Stato” è voce del verbo essere, modo participio, tempo passato. “E’ stato”, adesso non è più. Lo “stato”, che alle mie orecchie di bambino accendeva una certa paternità, era diventato l’eco di un abbandono, di una lontananza: era l’annunciazione di orfanezza. Quando lo stato manca, quando da sostantivo si fa forma verbale, è l’abbandono a presentarsi. E’ un vuoto che si annuncia: “Mi hai lasciato solo”.
Un vuoto-a-prendere, non a rendere. Quel vuoto è l’abitazione preferita dal male: è troppo ghiotto quello spazio per lasciarlo in disuso. Qualcuno lo prende, ne cambia la destinazione d’uso, da sostantivo lo fa diventare verbo al passato: è il giochetto da bambini delle associazioni criminali, quel vuoto diventa terreno edificabile per un altro stato, alternativo. Sovversivo. Uno stato dove a fare da Costituzione è il delitto: «Nelle mani dello Stato la forza si chiama diritto – scrive Max Stirner -, nelle mani dell’individuo si chiama delitto». Questo hanno detto le cinquantamila persone riunite a Padova l’altro giorno, con le parole di Daniela Marcone, figlia di Francesco Marcone, ucciso il 31 marzo 1995: «Non lasciamo nessuno indietro, con la memoria anche i nostri cari possono vivere. A noi il compito di comunicare le loro idee». Ogni vittima di mafia è una parte di storia del nostro paese: fare memoria è cucirsi addosso la veste delle loro idee e dare loro la possibilità di continuare a camminare. Non c’è nulla di più devastante – al mio paese, ch’è porzione di stato, come nello Stato in grande – del fatto che i furbi passino per saggi, prendendo il sostantivo più rassicurante che esista (lo stato) e facendolo diventare verbo coniugato nel tempo più lontano che ci esista nella grammatica: “(è) stato”. Complemento di tempo-funebre. Spazio vuoto.
Perchè, dunque, tutto un popolo sfila per le strade di una città? Di una città dove, fino all’altro giorno, sembrava esserci un’immunità genetica verso il virus della criminalità? Perchè, che lo ammettiamo oppure no, viviamo tutti all’inferno. E’ una pagina splendida quella che Italo Calvino tratteggia per spiegare il male, la sua fascinazione, la sua impotenza: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà. – scrive nella sua opera “Le città invisibili” – Se ce n’è uno, è l’inferno che formiamo stando insieme». Che fare, dunque, sapendo d’essere all’inferno e non potendo fuggirlo? Ci son due modi: «Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno, diventarne parte fino al punto di non vederlo più». A qualcuno va bene così: che “stato” diventi verbo coniugato al passato-funebre. Ad altri, invece, non sta bene: «Il secondo è rischioso, esige apprendimento continuo: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio». Perchè “stato” ritorni sostantivo di sicurezza, complemento forte di appartenenza, identità. Chi ha sfilato – a piedi, col cuore, entrambi – l’ha fatto come gesto di scusa, rammendo della memoria: per essersi, forse, leggermente distratti di fronte a quel vuoto. Che altri, attentissimi, hanno riempito: facendo di un sostantivo un verbo coniugato nel tempo più remoto che l’italiano possieda.

(da Il Mattino di Padova, 24 marzo 2019)

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