indulto

Il carcere è un mondo di colori nascosti dove sovente il concentrato di delinquenza impedisce l’avventura più ostica dietro le sbarre: comprendere il male senza mai giustificarlo, facendo dell’uomo che ha sbagliato una scommessa che assieme si può vincere. La sua gestione, dunque, non può essere solo compito della politica – che è chiamata a fare la sua parte – ma una sfida che coinvolge l’intera società. In questi giorni si è riaperto il dibattito in occasione di un emendamento presentato dal ministro dell’interno per rispondere al sovraffollamento delle carceri; è bastata la notizia per scatenare un tam-tam di pensieri e di impressioni legati alla sorte di chi nella vita si trova protagonista, a volte suo malgrado, di qualche atto di efferatezza. Al di là dei cavilli tecnici e burocratici che saranno discussi e ritoccati nelle sedi idonee, rimane aperta una riflessione che, come acqua di cascata, ricade sull’intera comunità civile. E, non da ultimo, sulla comunità cristiana che abita fuori dalle sbarre di una patria galera.
Se fosse una musica, la rieducazione del condannato somiglierebbe più ad una sinfonia che ad un assolo: tradurre e interpretare un’esistenza deragliata è fare i conti con la legalità e la solidarietà, la persona e la collettività, la misericordia e la giustizia. E’ tessere in un’unica tela gli aspetti legali e sociali, burocratici e spirituali, di espiazione e di recupero: un miscuglio che richiede la collaborazione di un’intera comunità per risanare il “tradimento” di un suo figlio. Perchè se rieducare significa ridare un alfabeto di umanità a chi ha sbagliato, allora vale quel vecchio proverbio africano: “per educare un bambino ci vuole un villaggio intero”. E, sotto certi aspetti, un detenuto dietro le sbarre è un bambino un po’ “scalmanato” al quale reinsegnare l’arte di camminare e di sperare, di vivere e convivere, di agire e attendere. Forse anche di gestire in proprio la sua vita per non divenire vittima di se stesso. In questo la politica cerca di fare la sua parte, ma sarebbe davvero ingenuo pensare che basti un indulto o un “decreto tampone” per risolvere le condizioni di vita di un detenuto. Certamente è un passo necessario perchè senza le condizioni indispensabili è davvero dura lavorare “con” e “per” i detenuti. La parte più ostica, però, rimane anche la più difficile: far trovare all’esterno una mentalità ospitale e accogliente che favorisca un giusto reinserimento ed eviti che, appena usciti, s’imbattano in una galera ancor più pericolosa: quella della solitudine, dell’indifferenza e, spesso, dell’emarginazione sociale. Quello che la politica non può offrire è il far trovare un popolo che s’arrischi di prenderli per mano e mostrando loro non solo le cose ma il senso ultimo che sta nascosto in esse. Che è poi il profumo dell’amore cristiano che nessun indulto potrebbe eguagliare.
E’ questo forse il margine più rischioso, quello che il popolo del Nazareno per sua natura può abitare, perché forte di strumenti e di una Parola data in dotazione: nella Scrittura se si rifiuta la responsabilità di una disfatta difficilmente lo si potrà fare per una vittoria. Aprire un porta, tendere una mano, creare un’ospitalità umana: per vincere la diffidenza di una città che con difficoltà sa fare pace con i suoi figli più turbolenti. D’altronde ogni cristiano sa che l’incontro con Cristo stravolge le prospettive e spiega il perchè di un’elezione immeritata e gratuita, oltrechè graziosa: perdonati per perdonare, guariti per guarire, salvati per salvare. Sotto la luce della vera misericordia: quella che non cancella la giustizia ma le offre un significato più profondo.

(da Avvenire, 15 giugno 2013)

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