Una vera prova di maturità: mostrare come il contenuto che si è appreso seduti nei banchi di scuola sia diventato, alla soglia dell’università, lo strumento grazie al quale leggere e decifrare il mondo nelle sue paure e aspirazioni, angosce e passioni, promesse e rimpianti. Il tema del viaggio è stato come un “testamento” spirituale lasciato ai maturandi in calce ad un quinquennio di studi, quasi a decretare il senso stesso di questi anni: ammaestrare il giovane ad organizzare il viaggio della propria esistenza. Un viaggio non lo s’improvvisa: per essere tale ha bisogno di una mèta, di una direzione, di un senso che abiti in esso. Ecco perchè un testo come quello di Claudio Magris – fine conoscitore del “viaggiare” umano e letterario – non esclude a priori gli scrittori studiati ma offre la possibilità di far esplodere l’apporto da loro dato: Omero e Manzoni, Ungaretti e Bedeschi, Leopardi e Carducci, Svevo e Montale, Manzoni e Verga. C’è chi il viaggio l’ha affrontato fisicamente, chi allegoricamente, chi solo come metafora di un vissuto: tutti, però, l’hanno affrontato alla luce di quello che hanno vissuto in una stretta intimità tra poesia e vita. Trovarlo come tema di maturità, dopo un iniziale spaesamento (alzi la mano chi nei programmi scolastici ha studiato Claudio Magris!) è stata l’occasione di mostrare come la scuola non rappresenti una specie di amnistia verso tutto il resto della vita ma sia davvero il laboratorio del sapere che aiuta a formare un pensiero che permetta di vivere nel mondo come cittadini e non come campeggiatori. Le ore passate sui libri, la simulazione della terza prova, gli ostici costrutti del greco e del latino, le eterne scorribande tra analisi logica e grammaticale, la sudata ricerca delle radici verbali e dei derivati. Eppoi le assonanze, le allitterazioni, la sinestesia. Proprio a questo son servite: a darti la possibilità – in fronte ad un autore non studiato – di renderti capace di abitare il tuo mondo da protagonista, forte di quelle piccole conquiste che quotidianamente hanno arricchito un bagaglio di conoscenze.
A scuola ci sono geni che la vita dichiara poi incapaci, anche solo umanamente; la stessa vita che, a scuola conclusa, mostra come l’ultimo della classe tenesse in serbo quella capacità intuitiva che nella vita l’ha poi premiato. Perchè questo dovrebbe essere la maturità: ricordare che – come diceva un certo Darwin – a sopravvivere non sarà la specie più forte ma quella che saprà adattarsi più velocemente al cambiamento. E’ il senso meraviglioso di una scuola che profuma di vita: aiutare a costruire da te stesso quegli strumenti che un giorno ti torneranno utili per affrontare l’inedito della vita, quel lato nascosto e imprevedibile che, mettendoti alla prova, saggia la forza del tuo pensiero e del tuo cuore. Ci sono giovani che durante la scuola continuano a cercare una risposta alla solita domanda: “quando finirò, ci sarà un posto di lavoro per me?”. Sono quelli che in fronte al tema avranno pensato: “questo non l’abbiano studiato”. Ci sono giovani, invece, che hanno investito cinque anni a cercare la risposta ad un’altra domanda, ai margini della derisione: “quando finirò, quanti posti di lavoro saprò creare con il mio sapere?” Son quelli che l’altro giorno, aprendo la busta, hanno sentito il cuore fremere perchè, finalmente, la scuola non offriva loro qualcosa di studiato per testarne la conoscenza ma porgeva loro ciò che non era forse mai stato sentito, per saggiare la loro capacità di abitare la complessità del mondo. D’altronde si dice sempre che l’esame più severo sarà quello della vita. Quest’anno, allora, hanno azzeccato davvero: perchè vivere da protagonisti è toccare ogni giorno il gusto di una sfida che non ti avevano anticipato ma che accetti di giocare senza piangerti addosso.
(da Il Mattino di Padova, 23 giugno 2013)