Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
bonucci

Come una celebrazione fatta di riti, liturgie, inni e riposte dal pubblico professate a gran voce. Forse gli è bastato poco più di niente – un pallone, un campo e un pugno di giocatori – per permettere al calcio di diventare quell’alfabeto popolare che è in grado di unire e dividere nel medesimo istante generazioni intere di appassionati. Fino quasi a riuscire laddove oggi tanti sembrano fallire, per quella sua capacità innata di usare simboli e riti capaci di accendere il cuore della gente. Lo canta la FIFA nei suoi spot umanitari, lo sanno i giocatori che spesso diventano testimonial del sociale, lo assaporano gli sponsor che ingrassano le casse e mandano avanti il carrozzone. Il calcio è anche competizione, agonismo, rivalità: fuori e dentro il campo. Talvolta sfora anche in eccessi disumanizzanti e poco sportivi: d’altronde quando c’è l’uomo di mezzo, l’imprevedibilità è il prezzo da pagare per la sua presenza.
Spagna-Italia di giovedì scorso era una partita di calcio, ma non solo. Era una sfida atavica, una possibilità di riscatto dopo gli Europei, l’appuntamento che tanti sognavano per regolare i conti. Una competizione che, col senno di poi, ha mostrato come l’avversario non sia un nemico da annientare ma l’altro con cui competere ad armi pari per misurare il tuo talento. Una partita che l’Italia di Prandelli ha giocato con stile e arguzia – a detta dei “saggi” del dio pallone –, senza farsi sottomettere e azzardando l’assalto alla porta delle “furie rosse” senza alcun complesso d’inferiorità. Forse meritava la vittoria: la storia, invece, ha decretato la sconfitta sportiva dopo la più ignobile delle modalità di esecuzione, la lotteria dei calci di rigore. Era già successo prima – e in questo senso eravamo preparati alla non convenienza dell’illusione – che l’Italia pagasse dazio tirando dagli undici metri: non sempre la sorte premia chi in campo avrebbe meritato la vittoria. Abbiamo perso, nel primo rigore ad oltranza possibile: a tirarlo Leonardo Bonucci, difensore della Juventus campione d’Italia. Un tiro alto, sopra la traversa, e svanisce il sogno di una finale nel mitico Maracanà di Rio de Janeiro: si lotterà per il terzo posto. Il web si è scatenato su quell’errore e ha fatto dell’ironia – ovviamente firmata da chi quella sera non era sul dischetto – la sua grammatica per irridere lo sbaglio. Un particolare, però, forse è sfuggito. A partita spenta Emanuele Giaccherini ha rivelato che quel rigore “avrei dovuto tirarlo io, ma non me la sono sentita e ho chiesto a Leo di calciarlo lui”. Un piccolo retroscena che sportivamente non scagiona chi ha fallito il rigore – forse passerà alla storia proprio per quello, come altri prima di lui – ma fa luce su un aspetto reso celebre da Roberto Baggio, un “genio” del pallone, anche lui alle prese con un rigore mondiale fallito (Usa, 94). Quel giorno s’addossò le responsabilità ma stregò il mondo con una frase che divenne ben presto catechesi anche all’infuori del pianeta calcio: “i rigori li sbagliano soltanto quelli che hanno il coraggio di batterli”. Punto.
Perchè tutti sono ct dalla poltrona, tutti sono maestri all’osteria, tutti sono capaci quando non tocca a loro: tutti sono giudici quando sul banco non c’è nessuno della propria tribù. In realtà l’errore non è solo infamia, è anche molto di più: è conseguenza del coraggio, è prezzo di chi cerca, è possibilità di chi non dorme, è storia di tutti i giorni. Come per le scelte nella vita: le possono sbagliare solamente coloro che hanno il coraggio di farle. Tutto il resto è opinione, supposizione, ipotesi: paglia al vento delle parole. Perchè un semplice rigore in una sera d’estate potrebbe averci ricordato l’elisir di lunga vita: non potremo essere responsabili delle vittorie se rifiutiamo di esserlo delle disfatte. L’elogio di un errore come buona domenica: per perdere con stile. Da campioni.

(da Il Mattino di Padova, 30 giugno 2013)

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