Da bambino
rimanevo affascinato, all’inizio di giugno e alla fine di settembre, dalla transumanza, quest’antichissima liturgia
agricola che nelle mie terre ancor oggi incanta fotografi e poeti, viandanti e guerrieri,
vecchi e bambini. Assistere, magari appostato dietro qualche malga, a questo "cerimoniale"
procura nostalgia dei tempi passati quando si scambiava erba da pascolare e
paglia per improvvisati giacigli con quello che si aveva a disposizione, cioè
formaggio, ricotta, latte. Insomma, nostalgia della transumanza vera e propria,
di questo presepio vivente che, spostandosi, coinvolgeva contrade e villaggi, sapori
e tradizioni, sguardi e affari. Questa parola a me piace moltissimo perché fotografa
un "passaggio": deriva, infatti, dal latino
trans – humus
che significa "spostarsi
da una terra all’altra"
.
Transumanza
per il bestiame, transumanza per l’uomo. Perché anche l’uomo – troppo figlio della
terra per pretendere di tradirne le liturgie – tante volte sente il bisogno di
spostarsi. Da un modo di vivere ad un altro. L’uomo necessita di transumanza se
non altro per riappropriarsi del tempo.
Il tempo! Tic
– tac che risuonano al crescer dei rami, minuti regolati dall’ululato del cane,
giorni scanditi da pascoli, mungiture e silenzi. Annate: somma di primavere,
estati, autunni e inverni. Naturali… corporei… mentali. Ma è ancora così? Oggi
vedi gente correre e sbandare, innervosirsi e farsi ricoverare, urlare e tremare.
Sembra sentir risuonare quella provocatoria domanda che K. Valentin rivolgeva
alle persone che incrociava: "Ah, per favore, forse potrebbe dirmi dove
voglio andare?"
. Vien da ridere,
eppure oggi viviamo così: in stato di stordimento confusionale. Questo ritmo
martellante c’impedisce di gustare le cose belle, gratuite: il volo
dell’aquila, il guizzo di un salmone lungo il torrente, la bellezza di un
cervo, l’astuzia della volpe, la cantilena quieta del cuculo, il volo della
rondine. Come mai nessuno riesce a mettere una rondine in gabbia?
Viviamo nel tempo senz’accorgerci che ci lasciamo vivere dal tempo! "Memento
mori"
– scrivevano i latini un po’
ovunque -. Quasi un invito a non dimenticare questo momento per non smarrire il
senso dell’esserci. Ma è una scritta che io volterei: "Memento vivere", un’impresa che giorno dopo giorno si mostra sempre
più ardita. Perché vivere non costa nulla, esistere è un imperativo per
declinare il quale non basta una vita intera.
La
transumanza vera era una briciola di grazia remota che si snodava lungo le vie
sterrate della montagna. Ci si spostava annusando temperature che aiutassero la
vita. Ci si spostava per poter vivere! Anche l’uomo deve spostarsi. E compiere
il viaggio più lungo, faticoso, estenuante che memoria umana rammenti: scendere
dentro di sé. Per imparare a parlare! Altrimenti – come scrive V. Andreoli nel
romanzo Dialoghi nel cimitero di Durness
– è "meglio star zitti (…) poiché l’uomo
ha soltanto dubbi ed è inutile rivolgersi a chi ne ha altrettanti, e sono gli
stessi di sempre"
.
Se
l’animale non si sposta ecco il bastone. Se l’uomo non si sposta? Ci pensa Dio:
un gran calcione nel culo che ti
manda con il muso nella polvere. Per riemergere con una mentalità nuova!

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