Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

parolechiacchiereTorna puntuale ogni anno la “Fiera delle Parole”: nelle piazze del centro di Padova, sotto la vista di tutti, a disposizione dell’udito di tutti. Si ripresenta ogni anno in prossimità della transumanza, quell’antichissima liturgia che celebra il ritorno delle bestie verso casa. Un’imbarazzante coincidenza che nasconde un simbolismo sorprendente del vivere umano: “fare transumanza” – ovverosia “passare da un luogo all’altro” – lo si può sposare con gli animali ma è un vestito che calza a pennello anche con l’umano, uomini e donne che s’affaticano sotto il cielo. Quella degli animali è una celebrazione di attrezzi, di suoni e di colori: carretti, asini e bestiame. Muggiti di vacche ingrassate, latrati di cani in dormiveglia, belare di pecore raffreddate. Coi colori della montagna che s’addormenta, del cielo che lassù annuncia il primo nevischio, del fieno tagliato poc’anzi. Anche la transumanza degli uomini è una celebrazione: di parole, di pensieri, d’immaginazione. Uomini e animali: la transumanza è di entrambi.

La “Fiera delle Parole” è uno spot della transumanza umana. L’immagine della “fiera” richiama il caos e i botteghini, gli stessi arredi ripetuti ad oltranza di stand e le varie decodificazioni della bellezza. Il vociare confuso dei visitatori, quello sommesso di chi firma affari, quello sospettoso dei concorrenti in borghese. La “parola” richiama invece l’intimità e la confidenza, la riflessione e la meditazione, il silenzio e l’eremitaggio. Al punto tale che vien da chiedersi: alla fiera s’addice meglio la parola o la chiacchiera, che ne è l’esatto suo contrario? Probabilmente la chiacchiera: tra gli stand si confabula, si scambiano opinioni e riflessioni, ci si racconta degli incontri e delle nuove tendenze. Sono dialoghi di superficie, quella che non è per forza banalità ma un semplice trastullarsi tra discorsi di passaggio, di convenienza, di circostanza: somigliano spesso le chiacchiere a dei vestiti di circostanza. Che l’immagine della fiera s’abbini al territorio delle parole è un simpaticissimo spaesamento, quasi un invito alla scelta: nella fiera del banale potrà mai esistere il linguaggio per dire – che è poi un raccontare, un cantare, un confidarsi – ciò che banale non è? Le parole non sono chiacchiere: basterebbe entrare in un luogo d’aggregazione sociale – dal bar al municipio passando per la chiesa – per scrutare come le parole che diventano chiacchiere abbiano svuotato le anime e impoverito i pensieri dell’umano. Le chiacchiere: cioè gli slogan, le frasi fatte e ridette, i ragionamenti presi in affitto. La vita di fiera, per l’appunto. Il caos.
Per fare transumanza sembrano più adatte le parole, quelle che somigliano a delle finestre che si aprono, a delle memorie che ritornano, a delle scialuppe di salvataggio. La parola è ricerca, meditazione, silenzio: non è l’improvvisazione della chiacchiera, lo sproloquio del ciarlatano, la catechesi di donna Prassede. E’ lo strumento primordiale per passarsi un’informazione, per narrare un incontro, per dare voce alle cose più sottili, intime, difficili persino a tratteggiarsi. La parola è impegnativa, la chiacchiera è di una facilità persino banale: «Non è da come un uomo ti parla di Dio, ma da come ti parla delle cose del mondo che tu puoi capire se ha dimorato nel fuoco di Dio» – scrisse Simone Weil. Tra la parola e la chiacchiera, dunque, viaggia la possibile transumanza degli uomini: dal guscio alla mandorla, dalla pelle al cuore, dalla desolazione alla consolazione. Che la scelta avvenga nella “fiera” dell’esistenza non è un impoverimento, bensì un’attestazione ancor più ambiziosa: c’è ancora possibilità di inabissarsi nel quasi banale alla ricerca del fondamentale. Che, a ben pensarci, è davvero buffo: le chiacchiere danno risposte, le parole rilanciano le domande, cioè non rispondono. Forse per questo gli intelligenti tacciono e s’interrogano. Perché il rischio di parlare a vanvera è altissimo.

(da Il Mattino di Padova, 5 ottobre 2014)

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