La situazione presentataci dalla Prima Lettura è spinosa. Dopo averlo fatto uscire dall’Egitto, Mosé si ritrova a dover gestire le lamentele del popolo, durante la marcia e, in seguito, la battaglia contro Amalèk.
Nella prima parte, troviamo il popolo che, assetato e stanco, chiede a Mosè di intervenire, mentre quest’ultimo sembra quasi più preoccupato per la propria incolumità, a fronte di un popolo ribelle, che per l’integrità del popolo stesso che sta conducendo a destinazione.
Uscire dall’Egitto sembrava l’impresa più impegnativa; una volta usciti, però, pare che l’impegno primario sia sopravvivere al sopraggiungere di difficoltà sempre ed impreviste. Prima manca il pane (e mangiano manna: Esodo 16, 1-10); poi manca la carne (e Dio offre loro le quaglie: Esodo 16, 11-12); infine, manca l’acqua, fondamentale per la vita quotidiana. Qui si inaspriscono le recriminazioni perché si arriva ad avere seriamente paura.
Passato questo pericolo, c’è un popolo intero, militarmente più forte, che si frappone fra Israele e la Terra Promessa. Due sono le condizioni per poterlo affrontare: radunare un piccolo esercito intorno a Giosuè ed innalzare a Dio una preghiera di intercessione.
È tanto importante la seconda, anche se, forse, non ce ne avvediamo, che addirittura, con un’immagine eloquente, mentre Mosè ha le mani innalzate prevale Israele, quando Mosè non riesce a tenerlo sollevate, è il nemico a prevalere (Es 17,11).
La preghiera sembra sempre povera cosa. Di fronte al Male che sconvolge il mondo, di fronte alle tante situazioni, piccole e grande, che destano le nostre preoccupazioni, pregare sembra sempre il “minimo necessario”. «Pregherò per te» pare un contentino, dato chi non voglia impegnarsi troppo: ci fa quasi sorridere, quando qualcuno ci fa una simile promessa, perché sembra quasi un modo per lavarsene le mani. La Prima Lettura ci ricorda che non è affatto così. Pregare è faccenda tremendamente seria, da non promettere a cuor leggero, se non si è certi di mantenerlo. Pregare non è il minimo: dove la nostra opera è impossibilitata, oppure si è conclusa, tutto quello che ci rimane è innalzare una preghiera, con sguardo confidante al Padre, che tutto sa e tutto può. Del resto, infatti, di un albero non si scorgono le radici: ma, se queste sono marce, anche se all’esterno la pianta appare sana, questa è destinata a perire. Così è la preghiera: essa procede sotto traccia, il più delle volte inavvertita, eppure è responsabile del nutrimento dell’intero corpo.
Nella vita della Chiesa, poco sappiamo della vita di clausura; spesso, anzi, la riteniamo inutile e null’altro una comoda “scappatoia” dai pensieri della vita. Può essere anche questo, naturalmente (solo Dio conosce i cuori): più di tutto, però, la vita claustrale è precisamente il veicolo alla vita vitale che tiene in vita la Chiesa, senza il quale, probabilmente, essa sarebbe già perita da secoli, sotto il clamore degli scandali e delle storture di tanti uomini e donne, più preoccupati di piacere al mondo che a Dio. L’intercessione, per antonomasia, del resto, è proprio quella di Gesù, innalzato sulla Croce: lui, l’unico Giusto, si è immolato, affinché tutti avessimo la salvezza. Al di là dei nostri meriti. Si è offerto, volontariamente, affinché “nessuno rimanesse indietro”, ma tutti potessero avessero la possibilità di raggiungere la Vita Eterna, come promesso alla Samaritana.
Interessante è però sottolineare come, accanto alla preghiera, vi sia la discesa, sul campo di battaglia di “un piccolo esercito”. Già, proprio così: pare, che anche in questo caso, la contabilità non sia il suo forte e che Dio preferisca affidarsi a qualcosa di piccolo, nonostante la logica suggerirebbe il contrario. Eppure, questo piccolo esercito è importante. Ci ricorda che anche la preghiera, pur importantissima, da sola, non basta. Dio ci chiede di scendere in campo in prima persona, di spenderci, di attingere alle nostre forze. In sintesi, come ammoniva s. Ignazio di Loyola: «Agisci come se tutto dipendesse da te, sapendo poi che in realtà tutto dipende da Dio».
Il Vangelo ci propone una prospettiva sul Male a partire dall’empatia col malato. Nella visione ebraica, che partiva da un versetto biblico («Il Signore è lento all’ira e grande in bontà, perdona la colpa e la ribellione, ma non lascia senza punizione; castiga la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» Numeri 14, 18) per afferire che le malattie fossero castighi divini per le colpe di chi li aveva concepiti. Lo sguardo di Gesù suggerisce che sia più opportuno parlare di opportunità: troppo spesso, ci limitiamo ad osservare, di un disabile, ciò che non gli è consentito fare. Ci sfugge però di tanto altro che gli è possibile.
A volte, intessiamo, cioè, una sorta di “immedesimazione a senso unico”, per cui, magari, siamo sinceramente dispiaciuti per la sua condizione, ma questo perché rimaniamo a guardarlo dalla nostra prospettiva.
Penso ad esempio ad una caratteristica che comunemente è vista come negativa ed invece è spesso un’opportunità. La cecità è una sfida di fiducia. La cattiveria di trarre in inganno un cieco può portarlo a farsi del male. Al contrario, un cieco ha bisogno di un aiuto, anche solo di una voce che possa guidarlo negli spostamenti, specie in un luogo che non conosce, oppure un braccio che gli sia amico e lo conduca dove deve andare. Da un lato, certo, può essere vissuto come un limite; dall’altro, però, è un’opportunità di cui i sani faticano a cogliere la portata, non avendone bisogno: è bello, ogni tanto, abbandonarsi, con fiducia, a qualcuno che ci guidi, rinunciare ad essere padroni per diventare dispensatori di fiducia nel prossimo.
Forse, è proprio in questo che consiste la fede, su cui ci apre gli occhi il cieco nato. La sua vita era segnata dall’immobilità, dalla speranza, sempre disattesa, che qualcuno possa aiutarlo, nella precarietà di una vita mendicante. Diverse volte, è costretto a ripetere le modalità con cui è stato guarito («L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Va’ a Siloe e làvati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista» – Gv 9,15), tanto che l’uomo-che-fu-cieco arriva a domandare se i suoi interlocutori siano interessati a diventare suoi discepoli. Questi ne sono scandalizzati: l’interrogatorio posto in atto aveva, al contrario, tutta l’intenzione di screditarne la fama, proprio per il fatto che tale miracolo era stato compiuto in giorno di sabato!
Essere stato guarito in giorno di sabato porta il giovane a condividere le diatribe intorno all’ortodossia del Maestro, fino ad essere espulso (ironia della sorte!) dalla sinagoga, cioè da quella comunità che, essendo guarito, avrebbe potuto tornare a frequentare.
Abbiamo lasciato, domenica scorsa, Gesù che è stato scacciato dalla sinagoga. Troviamo, stavolta, Gesù che incontra l’uomo che ha guarito, dopo che è stato a sua volta cacciato dalla sinagoga. È un incontro, dunque, fra due “espulsi”. Niente da meravigliarsi: da sempre, il prezzo da pagare, per la vera libertà, è alto e, spesso, implica la necessità di battere sentieri nuovi, che vadano oltre gli spazi prestabiliti: il Figlio dell’Uomo, Signore del Sabato, la indica. La fede inizia quando è scomodo credere, quando perdi visibilità e consenso nel mondo. Prima di quello, la fede è ancora in anticamera!
Rif. Letture festive ambrosiane, nella IV domenica di Quaresima, anno C – Es 17,1-11; Sal 35; 1Ts 5,1-11; Gv 9,1-38b
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