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periferia

L’avventura politica di Massimo Bitonci – che la maggioranza dei padovani ha scelto come nuovo sindaco della loro città – da più parti è stata tratteggiata come una vittoria costruita in periferia. I mercati rionali, i quartieri dalla difficile gestione, gli angoli problematici e intricati della città sono stati abitati nella sua campagna elettorale come anticipo di ciò che vorrà essere: il sindaco di tutti, per l’appunto. Che non teme di sporcarsi le mani, d’apparire impopolare e fastidioso, di firmare gesti e pensieri atti a salvaguardare la sicurezza della città. Perchè è stata questa la richiesta che la gente ha nascosto nel suo voto: quella d’essere sicura a casa propria, di poter passeggiare senza tremore nei quartieri e tra le piazze, di rivedere brulicare di bambini certe zone difficili di Padova. Di prendere un autobus in santa pace. Questo gli han chiesto i suoi cittadini. E questo, c’è da crederci, lui farà. O, per lo meno, tenterà in tutti i modi di fare.
Dalla periferia, per l’appunto. La zona, cioè, che sta ai bordi, tutto ciò che non è centrale, lo spazio che inizia laddove sovente termina l’ordine e la bellezza. Una zona che, in una seconda accezione, nasconde anche altre sfaccettature: l’impotenza e la disperazione, l’ignavia e la dimenticanza, l’oppressione e la reclusione. Anche, però, il riscatto e la rivalsa, la ribellione e la ripartenza, l’innovazione e le spinte. Insomma, una terra di frontiera feconda di stimoli e di possibilità. Tra tutte le periferie, una arreca fastidio: la periferia del carcere, quella dove sono richiusi gli uomini che la legge ha giudicato pericolosi. Ovviamente in qualsiasi campagna elettorale ci si guarda bene dal menzionare questa periferia: qualora la si nominasse, sarebbe solo per assicurare di inasprire le pene e promettere che le sbarre verranno rinforzate. Così facendo, però, il carcere rimane un tabù, la delinquenza s’ingrassa e s’ingrossa sotto gli occhi di tutti, la periferia rischia veramente d’essere l’anticamera della disperazione. Senza accorgersi che, così facendo, creiamo un mostro a casa nostra, ovvero proprio nel luogo che vorremmo sicuro. I disperati, infatti, tra gli umani sono la razza più pericolosa; non avendo più nulla da perdere, sono capaci di tutto, imprevedibili come cani sciolti e senza più la memoria di casa. Per “mettere in sicurezza” una città, non basta dunque riempire un carcere: è necessario, prima di tutto, creare una coscienza civica capace di scandagliare l’animo umano, laddove i fili del bene s’intrecciano inevitabilmente coi fili del male. E dove l’uomo che sbaglia non è automaticamente un delinquente pericoloso.
Dal nuovo sindaco non m’aspetto nulla per questa periferia. Non gli chiedo d’essere voce critica e pubblica per le condizioni disumane delle carceri; nemmeno di battersi per l’amnistia o l’indulto, misure che personalmente ritengo sempre parziali e alquanto ambigue. La mia richiesta non tocca nemmeno la possibilità di progettare possibili percorsi di riconciliazione tra il carcere e la città. Però percepisco a pelle che il nuovo sindaco è un uomo concreto e pragmatico, dal cuore aperto: qualità che già gli avranno fatto capire che non basta un carcere per far stare tranquilla una città. “Cosa ovvia”, mi diranno i detrattori. Ovvia forse, ma non per tutti. Chiedo solo, se possibile, un anticipo di simpatia per varcare un giorno quei cancelli, venirci a trovare e, forse, lasciarsi sorprendere dal bello che sa nascere anche sopra le macerie. D’altronde solo l’incontro con una presenza – o una realtà – ci da poi la possibilità di parlare di essa. Ragionare sulla letteratura è arte sopraffina ma anche pericolosa: sono concesse mille interpretazioni. Incontrare la verità delle cose, invece, permette di viverle invece che di leggerle. E, di conseguenza, d’essere uomini veri.

(da Il Mattino di Padova, 13 giugno 2014)

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