Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

sorpesa natale

Era uno di quei riti che, da bambino, mi facevano trattenere il respiro per la bellezza di nove giorni, quelli prima di Natale. Negli anni è uno dei pochi riti che ha mantenuto quella sua fanciullezza di spirito, concedendomi il lusso di tornare bambino: è la novena del Natale. Una pratica molto vecchia: venne eseguita la prima volta nel 1720 nella chiesa dell’Immacolata a Torino e da allora, lungo i secoli, è diventata la modalità dei poveri per prepararsi al Natale. La ragione è semplice: fare memoria di tutto quel cerimoniale dell’attesa di cui trasudano le pagine dell’Antico Testamento. “Fare-novena” è prepararsi alla festa; scegliere, come fosse un vestito, quale atteggiamento indossare; mettere il cuore in allerta perchè, tra poco, avverrà qualcosa d’ineffabile che non conosce prezzo. Natale, infatti, è la conquista della storia con stupore bambino: «Questo momento l’hai preparato durante tutto l’anno con racconti, con promesse, sopratutto con i tuoi sottintesi, con le allusioni segrete, l’immensità del tuo amore» (A. de Saint-Exupèry). L’ultimo giorno di una novena è come l’ultimo attimo prima di scartare il regalo la notte di Natale: il bambino guarda l’albero, tu guardi il bambino. E’ la densità massima dell’attesa: nessuno respira, tutto rimane sospeso all’intensità di quello sguardo. Sguardo che è come un fiore raro sbocciato nella neve.
Non ci sono giorni più ricchi di fascino dei nove che anticipano il giorno del Natale: la felicità, ancora una volta, abita nell’attesa, l’attesa è tutta sospesa alla dolcezza di uno sguardo. Quando il bambino aprirà il regalo, il suo sorriso ha un colore di tristezza: il vero piacere era il diletto dell’attesa, dell’immaginazione, dello stare-in-sospeso per vedere se la realtà corrispondeva al desiderio. Con la scoperta, non meno ricca di stupore, che la realtà superava il desiderio. O che la stagione del desiderio era stato il vero Natale. Perchè nessuno trae mai la gioia dagli oggetti, ma da ciò che essi lasciano leggere in trasparenza: il volto di un amico, il cuore di un padre, la cura di una madre. Un pensiero che rimane anticipo e traccia di un qualcuno che ti vuole bene. “La novena? Sono le solite-cose della nonna: non vanno più di moda oggi, lasciatele perdere”: sono in tanti a pensare così delle buone usanze di un tempo. Potrebbero anche aver ragione se, ricevuto un dono, l’uomo tradisse l’emozione di chi si è lasciato sorprendere, quasi catturato in una sorta di sequestro dello stupore. Il color-triste degli occhi, invece, lascia intendere quell’altro sospetto: che, strappata l’attesa, più nessun regalo riesce ad accendere il desiderio dell’infinito. Hanno scardinato le porte di casa dell’attesa, l’hanno sequestrata: gli auguri di Natale iniziano ad arrivare la prima settimana di dicembre, per vincere attesa e lontananza qualche regalo lo si scarta qualche già qualche giorno prima, Natale arriva quando sulla tavola ci sono già le bucce di frutta secca, una specie di natura-morta del Natale.
La mia nonna non era affatto stupida. Lei sapeva che, tolta l’attesa, tutto il resto sarebbe stato noia, della specie più pazzesca: la noia insopportabile. Era per questo che ci teneva, come pochissime altre cose, alle novene: perché, per lei, solo l’attesa era capace di preparare il cuore, di creare l’ appetito, di togliere via tutto ciò che era superfluo per fare il maggior spazio possibile a ciò che era necessario: l’incontro con una gioia capace di illuminare l’oscurità della storia. Prima di andare a scuola, ogni giorno di quei nove, si apriva una finestra sul calendario, quello appeso in cucina: dentro c’era una caramella. Era il modo semplice che lei amava abitare per mostrare a noi bambini che nell’attesa c’è già, nascosto, un anticipo di sapore di ciò di cui siamo in attesa. Un giorno ho scoperto che Natale è l’accettazione del rischio di morire per accettare la sfida di vivere: ho iniziato a intuire a che cosa serva una novena-di-allenamenti.

(da Il Mattino di Padova, 18 dicembre 2016)

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