Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Troppo poco “cattolica”, troppo poco “meditativa”, troppo poco “poetica”. Oppure troppo “sociale”, troppo “antropologica”, addirittura troppo “mondana”. Sull’ultima enciclica di Papa Francesco, Fratelli tutti, ho letto tutto ed il contrario di tutto. Non stupiamoci, comunque. Poche encicliche nel corso di quest’ultimo secolo sono state accolte con pareri unanimi, se le contiamo non arrivano ad eguagliare le dita di una sola mano.
Tra le svariate rimostranze, oltre a quelle già citate qui sopra, una mi ha allarmato non poco, soprattutto perché espressa da coloro che si sono premurati di dichiararsi ferventi cattolici. È rimbalzata da un utente all’altro attraverso i social, fino a diventare la più quotata ed anche la più discussa.
“Ama il prossimo tuo come te stesso dovrebbe essere dedicata alla sola salvezza delle anime e alla vita eterna, non agli aspetti sociali!”
Cari detrattori, ve lo dico con il cuore in mano, ma con estrema schiettezza: no.
Assolutamente no.
“Ama il prossimo tuo come te stesso” è una delle indicazioni che Dio dà nel Levitico (Lv 19,18). Si trova all’interno di una lunga lista di precetti morali e rituali, i quali hanno il compito di scandire l’esistenza di ogni israelita nel suo quotidiano insieme al proprio popolo, ma non solo. Già fin dalla prima Alleanza – quella con Abramo – ogni israelita era invitato ad un rapporto d’amore che coinvolgeva sia la verticalità della relazione con Dio, sia l’orizzonte composto dal suo popolo e dagli stranieri. La cura verso questi ultimi doveva essere infatti la stessa che si riservava ai poveri: ad esempio non mietere i campi fino ai margini, lasciare alcuni frutti agli alberi, affinché anch’essi potessero cibarsi. Non gesti eroici, ma semplice umanità di base, perché chiunque avesse almeno di che sopravvivere.
Il Nuovo Testamento – e la Nuova Alleanza in Cristo – fanno compiere passi da gigante a questo comandamento dell’amore. L’evangelista Luca non esita ad associarlo all’altro grande comandamento, presente nel Deuteronomio, “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore…” (Lc 10,27), formando così un unicum che è come un nodo che non si può sciogliere.
L’amore per Dio e per il prossimo sono legati l’uno all’altro. Non possono stare l’uno senza l’altro. Non possono prescindere l’uno dall’altro. Non è necessario scegliere quale dei due seguire.
Il Dottore della Legge, che chiedeva come ereditare la vita eterna, non avrebbe dovuto fare altro che incamminarsi sulla strada che lo legava al suo Dio ed ai suoi simili.
Il Gesù di Luca, tuttavia, domanda di più. Reclama che a questo amore si mettano ali non d’angelo, ma di Misericordia. E ci mette alle strette con la parabola del Buon Samaritano.
“Chi è il mio prossimo?” (Lc 10,29) chiede la misura dell’amore. Chiedere chi va amato presuppone che esista anche chi non può esserlo.
“Chi si è fatto prossimo?” (Lc 10,36) chiede invece un amore senza misura. Non esclude, ma invita a mettersi in marcia per primi, imbevuti di compassione verso chi si incontra.
Da “ama il prossimo” a “diventa il prossimo” è un batter di ciglia.
Come dite? Non c’è questa frase esplicita nei vangeli, quindi non vale?
No, nei vangeli c’è molto di più, infatti. C’è la seconda Persona della Trinità, c’è il Verbo, c’è l’Uomo che è modello della nostra umanità. Lui per primo è diventato prossimo di ognuno di noi, prendendo carne d’uomo, come ricordiamo ogni Natale ed ogni Pasqua. Lui per primo si è messo in marcia, dai cieli alla terra, rivestito di Misericordia, di compassione verso il nostro annaspare quotidiano. Lui per primo s’è fatto prossimo dei piccoli, degli ultimi, affinché nessuno nei secoli si sentisse troppo piccolo per essere amato, troppo reietto per essere redento.
Lui per primo ha mostrato che la vita eterna si raggiunge con ogni gesto della nostra umanità: condividendo il pane, sorridendo, accarezzando, perdonando…
Credere che l’amore sia solo una questione di cielo, e non anche di terra, vuol dire sminuire lui e noi stessi, vuol dire tarpargli e tarparci le ali. Vuol dire guardarsi allo specchio e non vedere nella nostra umanità – e in quella dei nostri simili – il riflesso di quell’Uomo che dall’eternità ci ama senza misura.

 

Credits immagine: pixabay.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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