Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

risveglio
«Misuro quant’è profonda una poesia – si confessò un mio professore – dal male che mi fa quando la leggo». Fiutai, nell’intimità di quelle parole, il segreto di una vera poesia: istigare il lettore, strattonarlo, importunarlo anche solo per il non capirci granchè leggendola. «Non la capite? – affilò la lama – E’ perchè non accettate di ritrovare voi stessi là dentro». E’ l’arcano di uno scritto di letteratura: fare in modo che l’esistenza vi si specchi dentro. E’ per questo, forse, che ogni volta che scocca l’ora dell’esame di maturità, si ha paura dei poeti: è assurdo, incontrandoli, chiedere alla vita di aspettarti fuori. Di non partecipare all’incontro.

Quest’anno una delle tracce della prima prova è stata la poesia “Risvegli”, capolavoro di Giuseppe Ungaretti. “Risvegliare” è verbo mattutino: ci si risveglia dal sonno, dall’oscurità, dalla notte. E’ anche verbo-di-caduta: capita di destarsi da un sogno ad occhi aperti, dall’avere abitato nel paese dei balocchi. In questi casi, si dice che “era così bello sognare. Perchè mi avete (ri)svegliato?” Tornare alla realtà è la dura legge del vivere. Nella poesia, invece, Ungaretti è un genio: aiuta l’uomo a risvegliarsi. Quel risveglio, però, non è un rimpianto per un sogno interrotto, ma è un’occasione per andare a ritrovare se stessi dentro il marasma della storia, della propria storia, che magari è stata pure una storiaccia: «Ogni momento – scrive Ungaretti – io l’ho vissuto un’altra volta in un’epoca fonda fuori di me». E accorgendosi d’aver già vissuto situazioni tra loro simili, riscoprirle in una maniera del tutto nuova, «sorpreso e raddolcito». Il poeta pubblicizza, con il fascino delle parole, la necessità di coltivare un cuore-in-attesa: c’è poco o nulla da conquistare, tutta la vita è stare in attesa di un qualcosa che sta accadendo.

Uscito scuoiato dall’esperienza della guerra, Ungaretti non parla del dolore o della sofferenza: spartisce, con il lettore, l’esigenza di rientrare in se stesso, di andare a risvegliare quel bambino che abita dentro noi, d’iniziare un dialogo con noi stessi. Risalendo, come i salmoni, la corrente: «Mi desto in un bagno di care cose consuete». Rievocando quelle epoche lontane – che sono storia, memorie e amici scomparsi – l’uomo percepisce che la vita non è una stramaledetta cosa dopo l’altra ma l’innalzarsi di un albero le cui radici affondano nelle profondità. E nel guardarsi dentro l’uomo percepisce il terrore delle grandi operazioni: «E la creatura atterrita sbarra gli occhi». E’ obbligato a fare i conti col mistero: quello maiuscolo: «Ma Dio cos’è?», e quello minuscolo: “Ma io da dove vengo?” E, nel dibattersi contro tali questioni, l’uomo «accoglie gocciole di stelle (…) E si sente riavere». Si è risvegliato a sè: più nessuno gli dirà ch’è un’inutile presenza.

Maturo è il navigante che ritorna in mare dopo il naufragio, il soldato a cui la guerra non ha scucito il gusto del vivere. Esame-di-maturità è accorgersi che il futuro altro non è che la versione riaggiornata del passato: tenerlo sveglio, nel presente, è «riaversi» dopo ogni caduta. Risvegliarsi, per non dormire da svegli.

(da Il Mattino di Padova, 23 giugno 2019)

 

«Ogni mio momento
io l’ho vissuto
un’altra volta
in un’epoca fonda
fuori di me

Sono lontano colla mia memoria
dietro a quelle vite perse

Mi desto in un bagno
di care cose consuete
sorpreso
e raddolcito

Rincorro le nuvole
che si sciolgono dolcemente
cogli occhi attenti
e mi rammento
di qualche amico
morto

Ma Dio cos’è?

E la creatura
atterrita
sbarra gli occhi
e accoglie
gocciole di stelle
e la pianura muta

E si sente
riavere»

(G. Ungaretti, Risvegli)

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