Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

tu es petrus

Il canto del gallo non è la dolce melodia dell’allodola annunciatrice dell’alba, né il gorgheggio del merlo solista appollaiato tra i rami. È un suono acuto che fende l’aria, prepotente, per nulla armonioso. Risveglia i ricordi, te li sbatte in faccia con la veemenza di una secchiata d’acqua gelata ed in quel sussulto gli occhi s’incrociano con un volto, con quel volto.
“E dopo essersi voltato, il Signore fissò lo sguardo su Pietro.” (Luca, 22,61)
Fissare-lo-sguardo nei vangeli è azione divina. È un sondare viso ed animo, un abbracciare mentre si osserva, è nudità di chi non ha più nascondigli con cui celare pensieri ed azioni.
Svelata in tutta la sua fragilità, l’umanità di Pietro freme nel sentire la carezza dell’occhiata della Misericordia. Quello stesso sguardo era stato regalato al giovane ricco, un amare-con-gli-occhi, una dichiarazione in piena regola che domandava solo d’essere ricambiata (“Gesù, fissatolo, lo amò”, Marco, 10,21). Quell’amore donato vale più di mille sguardi colmi di rabbiosa delusione, apre le dighe al pianto che lava e che frantuma ogni orgoglio, ogni proposito intriso di mondana praticità.
Se ne corre via, Pietro. Dove, non sappiamo. Lo ritroveremo solo al momento della risurrezione, intento a correre presso un sepolcro vuoto, meravigliato per non avervi trovato nessuno per davvero. (Luca 24,12)
Se esistesse un manuale intitolato “Fallimenti, come trasformarli in trampolini di lancio” Pietro dovrebbe essere menzionato a pieno titolo come uno degli esempi più fulgidi. Che il Capo della Chiesa abbia alla base della propria carriera ripetuti scivoloni, sonore tirate di orecchie ed una figuraccia colossale, ad alcune persone regala ancora una buona dose di perplessità. Desideroso di testare il proprio Maestro e di imitarlo, per poco non ci lasciò le penne tra le acque del lago di Galilea. Tutto gongolante per essere stato definito “pietra” della nascente Chiesa ebbe l’audace idea di correggere un Gesù per lui un po’ troppo pessimista sulla propria sorte: ne ricevette in cambio una strigliata di proporzioni epiche ed un epiteto – “Dietro di me, Satana!” (Marco 8,33) – da far rizzare i capelli.
Per far nascere l’uomo nuovo, Gesù lo sapeva, nulla v’era di meglio che una terapia d’urto. Del resto, la natura era un’insegnante eccellente in quel campo, dal seme che muore sotto la terra al bruco che rinasce a farfalla. Per l’essere umano non ci sarebbero stati sconti di sorta, sarebbero serviti martello e scalpello per togliere ogni eccesso e lasciar venire alla luce quel capolavoro che è l’uomo che vive il vangelo.
Il triplice rinnegamento di Pietro forse sconvolge alcuni di noi, ma non sconvolse Gesù, che amò l’apostolo anche per quell’umanità così imperfetta, così fragile, ma così stupendamente in grado di non lasciarsi abbattere dalla strisciante disperazione.
“Pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi,” (1 Pietro 3,15) scriverà Pietro, parecchi anni più tardi. Ecco la molla, quel trampolino di lancio: la speranza in una Misericordia che ti ama nonostante tutto, che conosce le tue cadute ma che ti dà anche la forza per rialzarti.
Pietro riesce dove Giuda fallisce: non tramuta il dolore del proprio fallimento in un’autocondanna senza appello, ma ne fa fuoco che brucia il superfluo, che sbriciola ogni idea sbagliata su un Messia trionfante all’umana maniera. Accende il lume della speranza – e non lo spegnerà mai più – e lascia che sia essa a guidare i suoi passi per diventare quella roccia di cui la Chiesa avrebbe avuto bisogno.
Molto spesso la nostra fragilità è qualcosa che ci atterrisce, la sola paura di non-riuscire in qualcosa ci paralizza più dell’effettivo fallimento e nel frattempo ci sembra di percepire su di noi lo sguardo indagatore di un Dio che aspetta solo il momento in cui i nodi arrivano al pettine. Ci sentiamo avvolti dalla nebbia della fede, insicuri sul cammino da fare per poter arrivare alla via d’uscita più vicina. La figura di Pietro è invece il riflesso di ognuno di noi, è un faro che illumina la nostra fragile umanità, proprio perché lo fu anche la sua.
Elevato lui a roccia, noi ad essere “pietre vive”, condividiamo il medesimo cammino, illuminati da una speranza che non è un vago sentire, bensì una persona in carne ed ossa di nome Gesù.

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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