Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato
Guerra, simulazione e realtà

A cavallo di eventi e situazioni

In questi ultimi due weekend, per motivi totalmente slegati tra di loro e input sconnessi e a sé stanti, mi è capitato di ritrovarmi a contatto diretto con la guerra e le sue dinamiche, tra simulazione e verità. È argomento quotidiano drammatico, non solo dal 7 ottobre scorso, purtroppo.

Galeotto un giro a Milano con un’amica a vedere la fondazione della Shoah, un giro in bici in argine con mia cognata raccontandoci i pensieri che questa guerra ci sta suscitando, un’apparente innocua partita a paintball, il tutto condito da podcast e un docufilm su San Giovanni Paolo II. Eventi apparentemente scollegati tra loro, che, però, hanno mosso una domanda in me, che è aperta da sempre: se mi trovassi in quelle condizioni estreme, cosa farei? Uscirebbe la bestia o l’umano? Scapperei, farei come gli struzzi o combatterei per una causa sacrificandomi o, ancora, difenderei solo me stessa, i miei cari o anche altri?

Una risposta latitante

Vi dico già che non ho una riposta. Vorrei tanto avercela. Ne ho qualcuna che spero di dare in quel momento, ma non sono certa mi appartenga ancora così veramente. Riesco solo a nominare alcuni dei tanti cerchi concentrici che si aprono in me e che, a macchia d’olio, si espandono. Vi chiedo già scusa per le tante finestre che aprirò e per la poca esaustività; non ci possono essere risposte semplici di fronte a una situazione complessa, sia dentro che fuori di noi, oltre a non essere sufficiente lo spazio di un articolo.

La guerra, per finta

I miei ultimi due fine settimana si sono conclusi, appunto, con una partita a paintball, gioco in cui si simula la guerra con tanto di basi, fucili ad aria compressa che sparano munizioni colorate, tute mimetiche, visiere, squadre. Da atleta agonista e competitiva quale sono, che ama vincere, ma non ad ogni costo, sono uscita da questa sfida con i pensieri in subbuglio. Nelle prime partite si è cercato di stare attenti all’avversario, di assicurarsi non si fosse fatto male con i pallini sparati, ma via via che il gioco procedeva sono usciti gli istinti di ciascuno.

Normalmente, in un gioco o in uno sport ci so stare dentro: riconosco i miei limiti, quanto potrebbero influire, e cerco un buon equilibrio tra mente, corpo, abilità da mettere in campo, strategie e, dove presente, squadra. Di fronte alla guerra simulata del paintball, ho fatto molta più fatica. Sapevo fosse un gioco, ma ha toccato corde diverse. A me le dinamiche di ingiustizia, belliche, di sopruso estremo, mafiose, creano molto disagio. So di essere psicologicamente debole di fronte a tutto ciò. Amo le sfide, amo gareggiare, ma in situazioni in cui mi si potrebbe fare del male o in cui qualcuno imbroglia, preferisco lasciarlo vincere.

Riesci a fermarti?

Ho ben presente, giocando a paintball, la scena in cui io ero stata colpita e il mio avversario ha continuato a spararmi. Mi sono resa conto ancora una volta che è questione di attimi. Premi il grilletto o riesci a fermarti? E io? Di fronte a un uomo disarmato, ferito, colpito, affonderei il colpo o mi fermerei? Dov’è il limite tra difesa della propria vita e difesa della vita ad ogni costo? Vale meno lo sparo per difesa rispetto a quello di chi colpisce un indifeso?

Ho solo realizzato che, forse, in quegli istanti ciò che esce è ciò che abbiamo allenato e alimentato. Esce ciò che già c’è, ciò che ci abita, ciò a cui abbiamo dato da mangiare.

Allora una delle domande radicali, alla radice di noi, di me, é: cosa o chi è radicato in me? In cosa o in chi credo fermamente? Quello in cui credo è veramente radicato in me a tal punto che condizioni estreme possono non prendere il sopravvento?

Martiri…

Mi si aprono a ruota altri tre pensieri: la semplificazione del martirio, l’anestesia indifferente e la solitudine del kamikaze.

Forse con ingenua facilità osanniamo i martiri, soprattutto quelli del nostro tempo, strettamente collegati a queste vicende belliche o mafiose. Penso a san Massimiliano Kolbe, piuttosto che a Edith Stein o a padre Pino Puglisi. Li guardiamo, ne conosciamo le gesta, li contempliamo, ed è giusto e buono sia così, ci sono da stimolo, da sasso nella scarpa che non smette di infastidirci, però questo accade a posteriori. A fatti accaduti, masticati, analizzati. Ma come ci sono arrivati a quel momento? Si sono allenati una vita intera, altrimenti è troppo tardi. Personalmente, i martiri mi provocano molto. Ritorna la domanda di fondo che mi abita: ma io come reagirei in quella situazione estrema? Quale verità di me uscirebbe?

Indifferenza

Il secondo pensiero riguarda l’indifferenza, l’anestesia di cui tutti siamo vittime. Più della figura del tiranno, mi sgomenta chi ne è complice silenzioso, omertoso. Chi sa, ma non dice. Lo sterminio degli ebrei, ma non solo, è stato possibile anche perché tantissime persone hanno fatto finta di non vedere e sentire. Non scandalizziamoci. Siamo così anche noi. Posso vedere il telegiornale e dormire serena, posso tornare da una partita di paintball e spararmi una serie su Netflix per non sentire il rimbombo che ha provocato in me.

I suoi tanti volti

L’indifferenza ha tanti volti, non è solo quella del “Binario 21” a Milano, ma ci appartiene ogni qualvolta non ci indigniamo per chiunque uccida la vita. Anch’io sono colpevole. É difficile guadarsi dentro, vedere cosa provoca e ci provoca, cosa muove ciò che sento. Fa paura. Costa. Obbliga anche a prendere posizione, a compiere, a volte, anche gesti compromettenti e questo è scomodo perché costringe, ancora una volta, a fare i conti con quella domanda radicale: cosa o chi sto alimentando dentro di me? Cosa o chi muove le mie azioni, le mie scelte?

… e la solitudine del kamikaze

E, infine, la solitudine del kamikaze. Come si può sostenere il peso di tutto quello che accade, soprattutto se ci ritrovassimo in condizioni estreme? Da soli verremmo schiacciati e annientati. É un’illusione pensare di farcela in solitaria. Saremmo kamikaze, appunto, che scelgono di schiantarsi o di farsi “esplodere” dal male che li circonda e che devono sopportare. Come pure saremmo kamikaze se pensassimo che è possibile fronteggiare da soli il male, il dolore, i soprusi. La rabbia che ci alimenta non sarebbe sufficiente, ci distruggerebbe, ci abbrutirebbe, ci renderebbe bruti e brutali appunto, e alimenterebbe solo altra morte

La speranza di una compagnia

Forse l’altra speranza che vorrei farmi amica è quella di avere accanto persone con cui portare il peso del male e della guerra. Con cui combattere, ma con le armi dell’amore. Persone che possano aiutarmi a fermarmi, se necessario, con cui stare in piedi insieme, con cui rimanere vivi, svegli e non addormentati. Con cui restare umani. Persone con cui non smettere di chiedere che il Dio dell’Amore intervenga. In me innanzitutto, il primo Caino, e nel mondo.

Simulare e muovere guerra

Chiudo, aprendo l’ultima finestra, che non è l’ultima in assoluto, ma che sta a cuore a me. Giocare a paintball è stato come simulare la guerra, per gioco. Avevo davanti agli occhi le centinaia di miei alunni, quelli che giocano quotidianamente online a fare finta di fare la guerra. Da adulta, mi sono dovuta ritagliare un tempo e uno spazio per far decantare l’aggrovigliamento di viscere che avevo dentro. Non ne avevo voglia, sarebbe stato più semplice non pensarci e accendere il computer, cliccando il tasto play su un film qualsiasi. Mi sono dovuta e voluta fermare, ascoltarmi, provando a vedere che facce avesse il disagio che provavo. Quello che ri-conosco in me. Costa fatica.

Simulazione e verità

Ma un ragazzino che gioca a qualsiasi videogioco in cui spararsi e ammazzarsi è normale, come fa? Da chi viene accompagnato? Chi lo tutela? Chi lo aiuta a fermarsi, a fare la fatica di guardarsi dentro, di ascoltarsi e magari anche di scegliere un altro gioco? Chi lo protegge dall’indifferenza? Chi lo aiuta a crescere facendosi carico dell’altro, accorgendosi di lui e non colpendolo a tradimento o per gioco?

Guerra: riflessioni a macchia d’olio

La macchia d’olio potrebbe continuare ad espandersi, è naturale, e spero possa contagiare anche te, che non ti lasci in pace, come non sta lasciando in pace me, perché siamo tutti collegati. Perché ciò di cui tu ti alimenti riguarda anche me. Spero che potremmo continuare a cercare insieme le risposte.


Fonte immagine: Pexels


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Una risposta

  1. Grazie Laura … Grazie per averci dato spunti per riflettere su quanto stiamo vivendo.. Buona giornata a tutti voi

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