elemosina2L’ho incontrata diverse volte. Sempre sul tram. Pioggia, vento, neve o sole. I genitori suonavano e lei girava per il veicolo, con la sua tazza colorata in mano. Ti sorrideva, gentile, invogliandoti a
lasciare un soldino di fronte a tanto garbo. Difficile indovinare la sua età. Quattro anni? Cinque? Forse addirittura sei o sette. Il corpicino minuto non aiutava in questo compito. Ma quel che era certo era che le ore che avrebbe dovuto e potuto trascorrere coi coetanei, in serenità, ad imparare e giocare, li passava invece sul posto di lavoro con mamma e papà. Tralasciamo la legalità, per non correre il rischio di essere legalisti, ma proviamo a riflettere su questa realtà.
Ci sono tanti bambini e bambine come lei che invece di essere sui banchi di scuola o a giocare, seguono i genitori quasi quotidianamente, per le strade o sui mezzi pubblici, mentre questi chiedono l’elemosina. Molto spesso, il loro è un ruolo attivo. Imparano – se così si può dire – il “mestiere”. Ne seguono le orme, ne imitano i gesti, imparano con dovizia e meticolosità i meccanismi per impietosire meglio le persone, spingendole a concedere l’offerta. Perché è impossibile non notare una certa ripetitività, una sorta di strategia  – in un certo senso – nei movimenti, nei meccanismi che prendono piede agli angoli delle strade oppure sui mezzi pubblici. Nulla è lasciato al caso: come lavoranti navigati, quello che per molti di noi sarebbe impensabile (basti vedere il numero di imprenditori che arrivano a suicidarsi di fronte al lievitare dei debiti), per loro è un mestiere a tutti gli effetti, di cui tramandare i segreti ai figli per generazione, con cura ed attenzione. Tutto è studiato nei minimi dettagli, tutto meticolosamente concertato (è facile, del resto, notarli parlare tra loro fitto fitto, scesi da qualche mezzo pubblico: la grande cura con cui si presentano al pubblico e sanno interagire, nella richiesta di denaro fa pensare che non siano solo chiacchiere, ma veri e propri accordi organizzativi, di “lavoro”, quindi!).

Inoltre, il fatto che non frequentino (o lo facciano saltuariamente) la scuola, disinteressandosi dell’obbligo, espone questi bambini ad un’impossibilità di scelta. Senza istruzione, la strada è la loro unica alternativa, così come la loro unica scelta possibile sarà ripercorrere i passi dei genitori, in un vagabondare peregrino. La strada sarà l’unica scuola frequentata e l’unico ambiente in cui sapranno vivere, perché gli altri gli saranno del tutto ignoti. Certo, sono scelte. Ma nel caso dei bambini, non essendocene una seconda, inevitabile pensare che tale scelta sia un po’ forzata, per non dire inevitabile e, dunque, ben lontana dall’essere una libera scelta, nel vero senso della parola.
Quando si parla di questi argomenti, si entra sempre in un campo minato. Due sono le tendenze entro le quali si finisce con l’essere delimitati. Da una parte, è da più persone sottolineata l’indipendenza storica e culturale dell’etnia rom-sinti, che è per sua natura nomade, dunque “senza patria”, libera e dotata di regole, costumi, usanze e stile di vita ben diversi da quelli comunemente messi in pratica dall’Europa delle nazioni. Non necessariamente cultura e usanze diverse costituiscono un problema, tuttavia resta una domanda da farci – piuttosto impellente – al riguardo: che cosa è bene per un bambino?
Per dirla in altri termini: la frequenza scolastica è solo una tradizione o è qualcosa che favorisce una crescita umana, sociale e spirituale del bambino? Si tratta di qualcosa che gli fa bene, oppure di qualcosa che fa semplicemente parte della tradizione, o, ancora, è solamente un’imposizione legale?
Negli ultimi due casi, si tratta di un pacifico costume ricavato da una tradizione che non è neppure così radicata, dal momento che l’alfabetizzazione diffusa è dato assai recente nella storia italiana ed europea. Se – invece – si tratta di qualcosa che fa parte della tutela che spetta al bambino, in quanto bambino, ogni cautela s’infrange di fronte all’esigenza di giustizia. Sostenere che si tratta solamente di un modo di vivere diverso dalla maggioranza ma assolutamente lecito, pur pensando che sia dannoso per il bambino è una evidente contraddizione. Equivale a considerare in modo differente i “nostri” bambini e i “loro”: significa, in sostanza, riconoscere diritti solo ad alcuni, valutando gli altri indegni di attenzione, tutela, difesa, protezione, nei loro desideri, bisogni e necessità. E tutto questo è inaccettabile.
Ecco perché quest’aspetto è uno dei più inquietanti, tra quelli legati ai problemi che suscitano le differenti visioni della cultura rom. Si tratta di un argomento molto delicato, perché non basta, con un relativismo ostentato che mal cela indifferente ostilità, pensare “Ognuno è libero di fare quel che vuole”. I bambini non hanno scelta. I bambini sono costretti a una vita per strada che non è una loro libera scelta.
Domandiamoci, allora, cosa sia giusto per tutti i bambini e per ogni bambino, per crescere serenamente e diventare una persona migliore dei propri genitori, qualunque essi siano. Perché solo questo è il vero progresso: la crescita umana delle persone!

Fonti, per saperne di più:

Campi rom, salute e spose bambine

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