Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

pinosradicato

Un’orda famelica di raffiche di vento e un’intera pineta se ne va: alberi sradicati, tronchi a far da tappo tra le strade di comunicazione, pini, lecci e sugheri a sparpagliare le loro fronde sulla terra. Quando la Natura si sveglia – magari adirata, molestata o anche solo per scapricciarsi – lascia sempre dietro di sé traccia di quella fascinosa e tremenda forza che a nessun artista riuscì mai di tacere nelle sue arti. L’immagine di queste ultime ore è la pineta della Versilia che struggeva i sensi al D’Annunzio: «E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancóra, stromenti diversi sotto innumerevoli dita». Alberi come strumenti, fronde come pensieri, suoni e messaggi pronti a stordire i sensi e ad ammaliare gli sguardi. Natura ch’è fonte di tocchi e di ritocchi.
Di tutto ciò, rimangono oggi quei furenti colossi scagliati al suolo, con in calce quel po’ di radici che ancora li legano alla terra: radici poco profonde per reggere il peso solenne di chi s’è lanciato e slanciato verso il cielo. Il popolo latino – popolo di pittori, di cesellatori e di certosini del linguaggio – usava il termine «origo,originis» per indicare l’origine di un qualcosa, anche di qualcuno. Tra i suoi mille significati, però, c’era anche quello di spartire la radice verbale con il termine “radice” che, a ben pensarci, è l’origine di una pianta. Una pianta è originale, dunque, quando affonda le sue radici nelle profondità del terreno: più le va affondando, più avvertirà slancio e sicurezza per poter svettare verso il cielo e le altezze. Radici poco profonde, invece, non le impediranno di innalzarsi ma non assicureranno prestanza quando il vento soffierà furibondo. E’ il monito della natura: essere “originali” significa, prima di tutto, avere radici: una storia condivisa, un senso d’appartenenza, una memoria collettiva.
Come delle piante, così è dell’uomo. L’uomo “originale” non è tanto l’uomo eclettico, estroverso e istrione: colui che le spara più grosse di tutti. Originale, invece, è colui che, avendo le radici ben piantate per terra, s’innalza sovrano sopra la mediocrità della gente. Capace di intravedere storie dove apparentemente non ci sono più storie, nel fitto della foresta svetta ad indicare una via, a segnalare una traccia, ad additare una direzione. Tutti vedranno la punta di quell’albero: la invidieranno, ne sogneranno d’appartenerci, tenteranno in tutti i modi di farne vessillo. Eppure la grandezza di quell’albero non sta nel suo svettare verso il cielo ma nel suo perforare il terreno alla caccia di punti d’approdo seri e sensati. Che reggano la furia dei venti contrari e delle bufere.
Oggi l’aggettivo «originale» sta subendo una violenza inaudita, è vittima di soprusi che tendono a svilirne la sua pregnanza più tipica. Oggi si dà dell’originale a chi la spara più grossa, a chi sembra voler fare a tutti i costi il “bastian contrario”, a chi sogna d’eccellere anche per un solo giorno nella foresta dell’umano. In casi di violenza come questi, la Natura torna a difendere il suo territorio più intimo, quelle essenze primordiali che fanno parte delle cose elementari della vita: difende coi denti il sapore più recondito di se stessa. Mostra severa cosa succede a chi, volendo essere originale ma non avendo origini serie, s’è trovato con un pugno di vento in mano. Con un tronco secolare messo frammezzo come segno e memoria di cosa significhi crescere, magari in fretta, scordandosi l’essenziale: le radici, i tempi lunghi, l’attesa e il silenzio.
L”originalità non è dunque questione di charme, di stile o di stravaganza. E’, prima di tutto, questione di radici, di ciò che non si vede e nemmeno è bello da vedere. Di ciò che, però, in tempo di bufera permette di non andare gambe all’aria e di rimembrare «su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, Ermione» (G. D’Annunzio). Originalità che illudono, radici che non deludono.

(da Il Mattino di Padova, 8 marzo 2015)

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