Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

55 Fede e InfedeltÖ

Chissà se Giotto di Bondone avrà letto al suo tempo, più o meno, quello che una mano lasciò scritto mesi fa sulla carrozza di un treno regionale: «Credo nella fedeltà, ma non sono un praticante». Una versione, un po’ romantica e un pò romanzata, del più religioso: «Credo in Dio ma non sono un praticante» (il problema è il suo fans club, la Chiesa). L’inizio del dubbio sull’eternità dell’amore, mi nacque nell’attimo in cui lessi la celebre frase delle favole: «E vissero felici e contenti». Pareva assai strana: “Sarà mai possibile – mi chiedevo – vivere felici e contenti da soli?” La frase, invece, mi appariva lieta aggiungendoci un avverbio, l’avverbio assieme: «E vissero felici e contenti assieme». La vita mi ha anche insegnato e mostrato l’opposto, è vero: c’è gente che è innamorata ma è infedele e gente che è fedele ma non è innamorata. Il fatto sussiste non solo nell’amore della carne, anche in quello dello spirito: esistono uomini e donne, dunque, capaci dell’uno e dell’altro. Che abbia ragione Erri De Luca quando scrive: «Non esiste il tradito, il traditore, il giusto e l’empio, esiste l’amore finchè dura e la città finchè non crolla»?
L’infedele, al netto delle celeberrimi corna amorose, non è colui che ha un’altra persona da quella che dice d’amare, ma colui che è un’altra persona pur di star assieme a qualcuno. Capita anche nella vita di fede che ci si costruisca un Dio su misura, o che ci si spersonalizzi pur di ostinarsi a credere. Quand’ero rinchiuso in una cella di seminario (vi sono rimasto 14 anni, ndr), forte era il rischio, e la tentazione, di mostrarsi altri rispetto a chi si era pur di non trovare impicci da parte dei superiori. Fare le corna a se stessi è la peggior tortura che un uomo di Dio possa perpetrare al Dio che dice d’amare, di sposare nella vita. “Tradito se stesso, si potrà poi dire di essere fedeli al Dio scelto?” andavo chiedendomi. Anche là, nella stagione della semina, ho incontrato gente fedele ma non innamorata: superiori tristi, educatori da minimo sindacale, preti con talare pulita e sguardo nebuloso. Anche gente innamorata ma non fedele: lo ammetteva, soffrendo degli sbagli commessi, mai vantandosi delle regole infrante. Ammetto d’avere sempre preferito, di preferire ancor oggi, i secondi ai primi: accarezzare le ferite è gesto di una nobiltà sopraffine. Un cristianesimo triste è l’esatto contrario del cristianesimo del Cristo: in questo caso, la fedeltà è anzitutto mancanza di fantasia. O, per dirla con la sapienza agricola della gente del mio paesello, “è facile essere casti se nessuno ti tenta”. Nessuna fedeltà, dunque, senza rischio. Ammettere il contrario è sognare, e ammettere, di vivere sotto una campana di vetro.
La Fede e l’infedeltà, come coppia, Dio li accoppia. In quanti passi della Bibbia varrebbe la sintesi che da grandi tradimenti hanno inizio grandi rinnovamenti. È la storia di Pietro, di Giona, d’Israele pargoletto. Di tantissimi altri, compreso il sottoscritto. Il che, sotto-sotto, consola assai: tradire, certe volte, significa uscire dai ranghi, si fa le valigie e ci si imbatte nell’ignoto. E’ dire a Dio: “Non m’interessi più, vattene fuori dalla mia vita” e, subito dopo, ritornare a cercarlo perchè traditi dagli dèi le cui braccia ci hanno accalappiato. Certo, mica è necessario il tradimento per essere fedeli, sia ben chiaro. I santi, che sono gente tosta al punto da stazionare nelle graticole pur di non farsi infedeli, insegnano che incontrarsi è una magia, e non perdersi è una favola. Con Dio, con gli umani. Fede, dunque, sono ventiquattro ore di dubbi, ma un minuto di speranza, per dirla alla Bernanos. Un intreccio di luce e di tenebra, d’amore e di tradimento. Di fedeltà assoluta che Satàn, pirla a duecentoquaranta all’ora, tenta di appassire: ci si perde piano piano, da un momento all’altro scompaiono tutti, come nel gioco del nascondino. Dio, da parte sua, resta fedele al primo innamoramento. L’anima umana rimane un abisso nel quale Dio vi si getta, perchè attirato: vivere è il dono che Lui ci fa, la maniera nella quale viviamo è il dono che noi facciamo a Lui. Fede, dunque, al tempo dell’infedeltà: «Se avessimo fede – scriveva suor Bernardette – vedremmo Dio in ogni cosa». E ogni cosa tornerebbe a parlare di Dio. A noi, poveri infedeli.


La Quaresima con Giotto
I^ giovedì con Giotto, L’ingiustizia e la giustizia, 18 febbraio 2021
II^ giovedì con Giotto, L’incostanza e la fortezza25 febbraio 2021
III^ giovedì con Giotto, L’ira e la temperanza4 marzo 2021
IV^ giovedì con Giotto, La stoltezza e la prudenza, 11 marzo 2021

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Dal 2 marzo, in tutte le librerie, Dei vizi e delle virtù (Rizzoli 2021), il nuovo libro di Papa Francesco e Marco Pozza

A Padova, nella Cappella degli Scrovegni, uno dei massimi capolavori dell’arte occidentale, Giotto racconta il percorso della salvezza umana attraverso le storie di Gesù e di Maria sulle pareti e il Giudizio Universale sulla controfacciata. Nel registro inferiore, in bianco e nero quasi fossero formelle in bassorilievo, Giotto dipinge le quattro virtù cardinali e le tre teologali alla destra del Cristo giudice, e alla sinistra sette vizi che delle virtù rappresentano il contraltare. Proprio a queste coppie di opposti – ingiustizia-giustizia, incostanza-fortezza, ira-temperanza, stoltezza-prudenza, infedeltà-fede, gelosia-carità, disperazione-speranza – è dedicata la nuova conversazione tra Papa Francesco e don Marco Pozza. Le virtù sono le strade che conducono alla salvezza, i vizi quelle che finiscono nella perdizione: “Le virtù ti fanno forte, ti spingono avanti, ti aiutano a lottare, a capire gli altri, a essere giusto, equanime. I vizi invece ti abbattono. La virtù è come la vitamina: ti fa crescere, vai avanti. Il vizio è essenzialmente parassitario”. Riflettere su questi temi serve a “capire bene in quale direzione dobbiamo andare, perché sia i vizi sia le virtù entrano nel nostro modo di agire, di pensare, di sentire”. Per questo, ogni capitolo è arricchito da un testo di Papa Francesco che approfondisce un tema del dialogo e da una storia di vita che don Marco Pozza ha ricavato dalla sua esperienza di cappellano del carcere di Padova. Perché nella vita quotidiana vizi e virtù procedono sempre intrecciati, e questo libro è un percorso che ci consente di ripensare insieme il compito, difficile e necessario, del discernimento tra il bene e il male.

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