Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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C’è un passato, c’è un presente, c’è un futuro. Così abbiamo bisogno di suddividere il tempo, noi uomini che, più o meno consapevoli, ne siamo immersi, per poterci raccapezzare. Già nel presente, pensiamo al futuro, ma ci è necessario un richiamo al passato. L’uno riprende l’altro, mentre, considerati separatamente, rischiano di perdere senso e significato (e noi, con loro).

La prima lettura ci invita a far memoria di chi siamo, da dove veniamo, di ricercare, insomma, le origini di ciò che siamo in un passato che è familiare prima, fino a diventare storia dell’umanità. Siamo incardinati in una storia. La nostra storia personale s’inserisce in un contesto più ampio, di una famiglia, di una comunità umana, che ci dicono qualcosa su chi siamo noi: eventualmente, per separarcene; ma non possiamo, semplicemente, ignorare tutto ciò che costituisce la nostra origine.

Anzi, questo è tanto più vero rispetto agli inizi di qualcosa di importante: una storia d’amore, un’amicizia, la nostra vita di fede. Quando è iniziato tutto? No, nessuno, tra noi, può dire seriamente “sono sempre stato cristiano”. Qualcuno è nato in una famiglia cristiana, qualcun altro no. Eppure, anche i primi hanno avuto sicuramente una svolta, un momento preciso in cui la fede degli altri è diventata fede personale. Non coincide (necessariamente) con un sacramento, ma si identifica, spesso, con un’esperienza particolare, che si fa tramite e mezzo, ma non è – per se stessa – esperienza di fede. Qual è quel momento? Individuiamolo. Lì potremo trovare la nostra sorgente, il momento iniziale, la svolta esistenziale, quella di cui – spesso – al momento non ci siamo accorti, ma solo ritornandoci in seguito abbiamo capito che era successo qualcosa di fondamentale per la nostra esistenza.

Nel caso del popolo d’Israele, ha iniziato ad essere popolo quando ha dovuto affrontare un deserto, incontrare delle difficoltà, scappare dagli Egiziani. Prima, erano solo un ammasso di persone che condivideva, forse, una genealogia tribale. Dopo, avviene la svolta: giocano la propria volontà, nella libertà. Che significa – anche – sbagliare (come nel caso del vitello d’oro, fabbricato a causa dell’impazienza di non veder tornare Mosè). Prima, quando erano con gli Egiziani, erano schiavi. Magari, anche nella schiavitù, si può assaporare un certo grado di dolcezza, che può persino far dimenticare il ferro a cui i propri piedi sono costretti. Magari, concentrandosi su un sollievo temporaneo, è possibile far passare in secondo piano la perdita di dignità che la schiavitù comporta. Forse, è proprio su questo meccanismo che si basa il rimpianto delle “cipolle d’Egitto”: di fronte all’asprezza del presente (nell’incertezza di un viaggio nel deserto, di cui non si conosce il termine), la mente si rifugia in quei pochi attimi di pace, in un pasto senza timore, in un poco di sollievo all’interno del timore cui vivevano sottomessi, per le continue angherie che erano costretti a subire.

La libertà, però, da sola, risulta più indigesta delle cipolle. Quella scorpacciata, dopo il lungo periodo di astinenza, rischia di provocare solo scompensi ai loro poveri stomaci. È necessario stipulare un’alleanza. Questo il senso del Decalogo, che Mosè riceve e a cui chiederà di essere fedeli.

Perché obbedire alla legge? Non per amore della legge, non per timore della punizione o di chi governa. Una legge, in vista di un bene, a protezione di qualcuno. Mi è chiesto un passo indietro, perché la vera libertà è avere la forza di poter prevaricare, ma liberamente scegliere di non farlo, come suggerisce, con quella particolare forza di cui sono dotate le immagini, una scena del film Schindler’s List (quella in cui Schindler discorre con il capitano Göth, ubriaco, su controllo e potere).

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«Così da essere sempre felici»: ecco la risposta alla domanda sulla legge. C’è un desiderio di quel bene, che è la felicità, all’interno di una norma, che a volte può sembrare costrittiva o sgradevole, o ambedue le cose.

Eudaimonia (εὐδαιμονία), dicevano i Greci, per indicare una felicità che, trascendendo quella gioia o quella soddisfazione strettamente legata a ricchezza, successo, salute è il motore delle nostre azioni più profonde.
Come quelle che vediamo nel brano di Vangelo, che ci propone la resurrezione di Lazzaro.

«Signore, ecco, colui che tu ami è malato»: con queste parole si apre la scena. Gesù sta predicando, nel suo vagabondare itinerante; giunge un messaggero che lo aggiorna sulla situazione di un suo amico, sul quale aveva sempre contato, presso il quale aveva sempre trovato ospitalità e benevolenza. A queste parole, non conoscessimo la storia, saremmo portati a pensare: “Adesso, lascia tutto e va dal suo amico, perché gli vuole bene e, si sa, in amicizia, non si può proprio considerare di perder tempo, di fronte a una persona che chiede aiuto, perché sta male: bisogna rompere ogni indugio e lasciar perdere qualunque altra occupazione, in favore del soccorso all’amico!”.

Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro. Quando sentì che era malato, rimase per due giorni nel luogo dove si trovava. (Gv 11, 5-6)

Siamo così assuefatti a sentire questo brano che, forse, non prestiamo più attenzione ai potenziali ossimori che contiene. Prima abbiamo la garanzia dell’amore di Cristo nei confronti dei tre fratelli. La frase successiva, però, mette in relazione diretta il fatto di ricevere la notizia dell’amico, con il fatto di rimanere esattamente dove si trova. Cioè: Gesù viene a sapere che Lazzaro è malato quindi rimane per due esattamente dove si trova. Per due giorni! Non qualche ora, non un giorno; ben due giorni e nonostante la notizia gli fosse arrivata (vien da pensare anche con una certa angoscia, avvertibile già dagli occhi e dall’intonazione del messo incaricato della novella).

Poi disse ai discepoli: «Andiamo di nuovo in Giudea!». I discepoli gli dissero: «Rabbì, poco fa i Giudei cercavano di lapidarti e tu ci vai di nuovo?» (Gv 11, 7-8)

Dopo due giorni, Gesù delibera di andare da Lazzaro, che significa tornare in Giudea, cioè dove i giudei, poco prima (Vangelo della III domenica di Quaresima ) volevano lapidarlo, perché si era apertamente proclamato figlio di Dio, scandalizzando proprio quelli che avevano, in precedenza, creduto in Lui.
I discepoli, tra lo scandalizzato e l’ironico (ormai hanno imparato a convivere con le stranezze del rabbi di Galilea e – forse – proprio in questo trovano motivi quotidiani per rimanere, nonostante lo scandalo e l’incomprensione, verso alcuni suoi discorsi), glielo fanno notare. Giudea significa tornare dove volevano ucciderti: forse, non è troppo prudente!

È in questo punto, prima ancora della successiva resurrezione, che percepiamo la libertà prettamente divina di Cristo. È dell’uomo la fretta, che trasforma l’occupazione in preoccupazione e la sollecitudine in angoscia. È di Dio quella longanimità che consente di avere uno sguardo più ampio ed esteso, che vada oltre il qui e l’ora, ma racchiude, in un unico sguardo, l’intera eternità, annullando tempo e spazio. L’uomo, anche in questo, è schiavo, incapace di sganciarsi dal tempo. Cristo ha, invece, la libertà di dire, in un primo tempo, che non si muove dal posto in cui è, raddoppiando la dose di libertà, nel decidere di andare dall’amico, due giorni dopo, nonostante la presenza incombente e minacciosa dei Giudei.

Nel frattempo, a Betania, la tragedia si è già consumata. Lazzaro è morto e noi possiamo constatare come, diverse nella vita quotidiana (diventate, nella memoria dei secoli, icona di attività e contemplazione), le due sorelle si comportano in modo molto diverso anche di fronte alla morte. Una (Maria) rimane in casa, l’altra (Marta), corre incontro al Maestro. Entrambi, tuttavia, sono accomunate da una frase («Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!»), che ben sintetizza la piena fiducia in Gesù. Che, però, forse, ancora non era fiducia nel Figlio di Dio, se non prendeva in considerazione che, anche “dopo”, Cristo sarebbe potuto intervenire.

Gesù scoppiò in pianto. Dissero allora i Giudei: «Guarda come lo amava!». Ma alcuni di loro dissero: «Lui, che ha aperto gli occhi al cieco, non poteva anche far sì che costui non morisse?» (Gv 11, 35-36)

Gesù scoppia in pianto. No, non fa parte di quell’umanità che “non deve chiedere mai”. È veramente uomo, anche in questo. Nella sua vita, ha attraversato il dolore di un lutto, della perdita di una persona cara, dell’impotenza di fronte al dolore. Questa reazione, però, come nel caso della guarigione del cieco nato (che abbiamo trovato nella IV Domenica di Quaresima), divide gli astanti. Qualcuno vi trova conferma dei – precedentemente solo supposti – amore e predilezione, nei confronti dei fratelli di Betania: altri, invece, trovano, in questo, nuovo motivo di polemica, sulla scia del “ma si sveglia adesso? Non poteva intervenire prima?”.

In questo momento di pathos estremo, sembra quasi di vivere una nuova Annunciazione, con la stessa tensione d’incertezza nell’aria: che succederà, ora? Che senso ha quel pianto? Può cambiare l’ineluttabilità della morte o il massimo che potrà fare il rabbi di Galilea sarà piangere con le due donne e far loro un bel sermone consolatorio, che le inviti a pensare positivo, “anche se in questo momento è difficile”?

L’attesa si scioglie in un lieto fine – o, almeno, così pare – dal momento che Cristo richiama Lazzaro dalle tenebre mortifere alla Luce del Verbo.

Tre sono le resurrezioni di cui i vangeli ci danno notizia: la figlia di Giairo («capo della sinagoga e ricco», vd. Mc5,21-43, Mt9,18-26, oppure Lc 8,40-56), il figlio della vedova di Naim (vd. Lc7,11-17) e Lazzaro. Possiamo notare, con Agostino, una sorta di progressione: la figlia di Giairo era ancora in casa (quindi morta da poco), il figlio della vedova è ormai alla porta della città (sta per essere sepolto), mentre Lazzaro è già nel sepolcro da quattro giorni.

Partendo dal presupposto che la morte dell’anima è il peccato, S. Agostino ne dà una lettura allegorica molto efficace:

A volte si pecca solo col pensiero: ti sei compiaciuto di ciò che è male, hai acconsentito, hai peccato, il consenso ti ha ucciso; però la morte è solo dentro di te, perché il cattivo pensiero non si è ancora tradotto in azione. Il Signore, per indicare che egli risuscita tal sorta di anime, risuscitò quella fanciulla che ancora non era stata portata fuori; ma giaceva morta in casa, a significare il peccato occulto.
Se però non soltanto hai ceduto col pensiero al male, ma lo hai anche tradotto in opere, è come se il morto fosse uscito dalla porta; ormai sei fuori, e sei un morto portato alla sepoltura. Il Signore tuttavia risuscitò anche quel giovane e lo restituì a sua madre vedova. Se hai peccato, pentiti! e il Signore ti risusciterà e ti restituirà alla Chiesa, che è la tua madre.
Il terzo morto è Lazzaro. Siamo di fronte al caso più grave, che è l’abitudine perversa. («Trattati sul vangelo di Giovanni», S. Agostino – trattato 49)

Tutti i peccati portano in sé il germe del male, ma quello che ci avvinghia a sé con legacci mortiferi è l’abitudine al male (al quale ci si può assuefare, come ad una droga, perdendo, a poco a poco la capacità di distinguerlo dal bene). Neanche in questo caso, più grave, ci è consentito disperare, dopo aver letto questo vangelo: Cristo ha vinto la morte e il peccato, per cui può venire in soccorso a chi si volga a lui.  

«Non ti ho detto che, se crederai, vedrai la gloria di Dio?» (Gv 11, 40)

Il problema è: noi crediamo davvero?

Ci crediamo a questa resurrezione, alla vita eterna di questa carne mortale che ci riveste, che si ammala, che si riempie di acciacchi con l’età, che ci dà noia, quando non è sufficientemente “come la vorremmo noi”?

È in vista della resurrezione che siamo chiamati, quotidianamente alla conversione, per vivere, ogni giorno, con la libertà dei figli di Dio e non con la schiavitù del popolo d’Israele in Egitto!


Rif: letture festive ambrosiane, nella V Domenica di Quaresima, anno B

Fonte immagine: La Resurrezione di Lazzaro, van Gogh

Per approfondire: eudaimonia

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