pianoforte
Lei è la morte: sta bussando alle porte, la sua voce ringhia per le strade, la sua figura s’insinua adagio nell’interstizio delle notizie. Per annate e stagioni ci siamo distratti pensando che la morte fosse destino degli altri: “L’Africa è lontana, Wuhan è in Cina, quelli sono anziani”. È bastato un virus per svelare la fallacia del nostro sillogismo, vestito da palliativo: «Gli altri muoiono, ma io non sono un altro; dunque non morirò» (V. Nabokov). La morte, invece, volando sul biplano di un virus, ci ha truffato tutti: “Frontiere, check-point, fili spinati? Muri o trattati? Me ne infischio altamente: con quelli fermatevi i carri armati, le barche, gli spostamenti. Io sono più intelligente: viaggio nell’aria, sono sfuggevole, sarò la vostra disgrazia”. Eccola: a graffiare le porte delle anime. L’ultima barriera che ci eravamo costruiti – quella di pensare che, tanto, becca gente malata, persone già fiacche – è stata smantellata pure quella. Siamo tutti nudi di fronte a lei.
Capita, dunque, che tutti, in questi giorni, facciamo esperienza della morte: pensandola, temendola, vivendola. Combattendola. E’ una morte truculenta, se ci impedisce persino di celebrare il gesto di pietà delle esequie per i defunti. La mia gente di montagna, forte di una fede semplice e fanciulla, mi ha donato un’espressione: “Quando muoio, almeno fatemi un bel funerale”. Ricordo che, in occasione della morte di qualcuno, in paese si apriva la casa: per un aiuto, per un’assistenza, per una preghiera. Il morto veniva esposto, la morte esorcizzata. In questi giorni, invece, è vietato pure quello: appena morti, una benedizione e via, sotto-terra, bruciati (per coloro che hanno la fortuna di trovare un posto al crematorio). Identica sorte per il prete che, in paese, celebrava questo rito per trasformare la data di morte quaggiù con la nascita lassù: cadono pure i preti, i loro corpi se ne vanno senza il popolo appresso, da soli col Dio testimoniato. In trincea, poi, il rischio è maggiore: negli ospedali, nelle carceri, nelle terre dove il cuore della carità è andato, nel tempo, ad aprire presidi. Il risultato, a scanso di equivoci, l’ha scritto con la nudità della sua penna Euripide: «Nessuno può dire con certezza che domani sarà ancora vivo». Non è annuncio di iella, è la vita.
Non possiamo saltarla: allora? Attraversiamola: è la consolazione cristiana della morte. «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata» recita la liturgia nel suo prefazio per i defunti che più mi piace. Trasformare non significa gettare-via, buttare-via: significa cambiarle la destinazione d’uso, ristrutturarla e adibirla a nuova abitazione. “Faccio fatica persino a morire!” mi ha confidato un amico prete. Facciamo fatica a morire come facciamo fatica a nascere: nessun parto, verso l’alto o verso il basso, è mai indolore. Fossimo attenti, nei vagiti del neonato già si ode il rintocco della campana funebre: non è iettatura, è la vita. Che è miscuglio di fragilità e maestria, genio e riottosità, tinture e buio: «L’erba si secca, il fiore appassisce, ma la parola del nostro Dio dura per sempre» (Is 40,8). I camioncini dell’Esercito, che da Bergamo trasportano le bare fuori dalla città, sono un’immagine scioccante di questi giorni infettati: c’è la fila persino per andare a morire. Ci è vietato persino riposare accanto ai defunti di casa nostra, nel cimitero che tante volte abbiamo frequentato, in mezzo a tombe che, anche solo scherzosamente, abbiamo immaginato fossero le nostre prossime dimore. Lei, la morte, nel frattempo ci era accanto: ci prendeva le misure, ci soppesava, ci fissava. Distratti, non ci siamo accorti del vestito che, senza fretta, ci stava facendo indossare. Oggi ci accorgiamo che quel vestito l’abbiamo addosso: non è la tomba, è la nostra fragilità, quel limite che nessuno vorrebbe accettare ma con il quale stiamo tutti in trattative-riservate. Sono giorni che, all’alba, recito un Requiem aeternam dona eis Domine. Lo recito per me. Fosse il mio turno, oggi, mi piacerebbe che qualcuno mi salutasse così. Tutti presi dall’#andràtuttobene, andrà tutto bene se, almeno, calcoleremo quant’è fragile la nostra onnipotenza.

(da Il Mattino di Padova eIl Sussidiario, 21 marzo 2020)

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