Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

PanGeaOrchestra01Se dico “integrale”, quali pensieri suscito? I più lussuriosi penseranno al gossip per foto di nudo integrale della diva di turno, i più salutisti magari penseranno a crackers o altri snack per mangiare e mantenersi in forma smagliante (e senza smagliature!).

Se pronuncio la parola integralismo, quale immagine entrerà nelle persone che la sentono? Forse qualche fanatico religioso, magari con un kalashnikov in mano, pronto a far saltare in aria chiunque si frappone fra lui e il suo ideale (magari solo perché persuaso subdolamente da chi ha i veri interessi nel divulgare tale ideologia); testimonianza vivente di come un’ideologia che faccia sopravanzare l’uomo dall’idea, per buona che sia, rischia di fare dell’uomo un fantoccio a propria disposizione, pronto per essere piegato ai propri fini.

Potrei fare un ulteriore esperimento e parlare di integrità. Probabilmente, qui io toccherei il punto più basso dell’indice di gradimento, rasentando un livello che ondeggia tra la noia assoluta e il desiderio di mettermi a tacere, volendo cambiare argomento nel più breve tempo possibile. L’integrità richiama infatti un concetto morale e solo questo basta a far avvertire tale parola come disgustosamente seria, opprimente, perfino con una punta d’ipocrisia borghese, intinta nel perbenismo. Dai, siamo onesti: come ce la immaginiamo una persona integra, di integra condotta? Qualcosa tipo un impiegatuccio statale, preciso e ligio al proprio dovere, puntuale, irreprensibile, inappuntabile, praticamente perfetto sotto ogni punto di vista. Aggiungendo prontamente un dettaglio, con ghigno maligno e sguardo compiaciuto: “sì, all’apparenza!”. Già: questo quadro idilliaco sembra troppo perfetto per essere vero. E in effetti, tutto ciò che ci sforziamo in modo innaturale di far apparire perfetto lascia solo una stridente sensazione di  banale mediocrità.

Integralità, invece, cosa potrà suggerire, alle nostre orecchie? Cos’è l’integralità? Ci risuona una distorsione dell’ideale, come l’integralismo, oppure ci riporta alla totalità, all’interezza, quindi, in un certo senso all’origine dell’idea? Che è proprio ciò che ci restituisce la pienezza.

L’uomo integrale è l’uomo nel suo complesso. Come – e più – che al tempo di Petrarca, l’uomo rischia di essere frammentato, spezzettato, dilazionato. Scissione tra ideali e azione, tra sogni e realtà, tra concretezza e valori. Va cercato e, magari, trovato un equilibrio che possa raccontare qualcosa sull’uomo. Che possa almeno provare, con un tentativo concreto, tangibile e credibile, la bellezza dell’unità.

La Pasqua si inserisce in questo solco. Che è un solco gigantesco, lungo almeno tutta la storia dell’Alleanza di Dio con Israele e con l’umanità di ogni tempo. Dio si è fatto uomo, pienamente uomo, totalmente uomo in Gesù Cristo. Ha camminato con noi, sulle nostre strade, con gambe come le nostre, con un cuore di carne, con la sofferenza che gli pungeva il petto, il dubbio che poteva martoriargli il cervello, accompagnato da quell’unica certezza, che alla fine (sulla Croce), sembrerà vacillare: il Padre era con lui. Il momento della Resurrezione, avvolto nel mistero, affidato alla fiducia nella sua Parola e alla voce più inaffidabile (secondo il “sentire” del tempo) ma anche più veloce nella sua diffusione – quella delle donne – rimane un messaggio ancora da decifrare. Il solo parlare della morte ci secca; eppure facciamo fatica a credere davvero alla Resurrezione. Come per quelle cose che sembrano troppo belle per essere vere!

Dio ha uno sguardo integrale sull’uomo, si rivolge a lui in modo totale, arrivando a toccare le sue paure più profonde e nascoste. A partire proprio da quella paura della morte che lo atterrisce e lo annichilisce, mettendo in discussione il valore dell’esistenza umana. La luce della Pasqua richiama l’uomo al suo splendore originario, invitandolo alla speranza che nessun dolore potrà avere l’ultima parola su di lui, sopraffacendolo in modo ineluttabile.

Solo nell’unificazione di se stesso è possibile trovare una tensione positiva che guidi l’essere umano verso una direzione che dia senso alla sua vita. Non c’è l’uomo che va a correre, l’uomo che prega, l’uomo che fa volontariato, l’uomo che studia o lavora, l’uomo che va al bar e si ubriaca con gli amici. L’uomo è uno solo ed è sempre lui a fare tutte queste azioni, è “dentro” ad ognuna di esse. Forse è vero come diceva Pico Della Mirandola che l’uomo è tra terra e cielo e forse, proprio per questo, fa fatica a trovare il suo posto nel mondo. Va detto che, ogni tanto, sembra che non lo cerchiamo neanche, però! Ci basta essere pedine di un meccanismo, inserirci bene in un certo sistema. E allora, cerchiamo di essere: cittadini mediamente onesti di cui non ci si possa lamentare; lavoratori mediamente solerti, quanto meno per mantenere il nostro posto di lavoro; studenti studiosi, almeno quanto basta per ottenere il minimo in tutte le materie e far contenti mamma e papà; poi, in oratorio, parrocchiani perfetti che fanno i salti mortali per essere presenti ai vari appuntamenti. Quasi avessimo un’agenda settorializzata alla quale spuntare tutte le cose fatte per poter dire, a fine settimana: “ho fatto tutto!”.

Ma tutto cosa? Sono solo cose? O ci siamo dentro anche noi, quando le facciamo? Sono pezze da appiccicare ai vestiti oppure esperienze da vivere non solo con il cuore, ma con tutti noi stessi, perché, una volta fatte, possano caratterizzare la nostra esistenza e trovarci, ogni volta, un po’ cambiati da ciò che vediamo, facciamo, viviamo?

L’uomo non è anima, né mente, né corpo, né cuore. È, piuttosto, l’unione – inscindibile – di tutti questi elementi; che non possono essere messi in standby nel momento in cui uno di questi è più in rilievo o è (apparentemente) l’unico interessato rispetto a una determinata esperienza. Perché, in realtà, noi siamo una persona sola e sarebbe riduttivo e fuorviante mettere tra parentesi gli altri elementi e basarsi su uno solo. Focalizzarsi su uno solo degli elementi sopra citati equivarrebbe  a valorizzare solo i fiati, o gli archi, o il pianoforte, o le percussioni di un’orchestra, dimenticando quale sia la meraviglia della magia generata dall’armonia del complesso che scaturisce da questi strumenti, quando suonati con maestria. Credo sia da riscoprire la ricerca di un bilanciamento che renda equilibrata la composizione delle varie sonorità, più che l’eliminazione dei suoni troppo fuori dal coro. Come, il più delle volte, il segreto per un buon concerto sta nel buon bilanciamento di tutti gli strumenti presenti sul palco (non certo nell’eliminazione di qualcuno di essi!), così nella vita non si tratta di eliminare il lato spirituale, corporeo, mentale o sentimentale, quanto piuttosto di garantire ad ognuno l’adeguato spazio per poter librare nell’aria le sue note migliori!

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