Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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«VENIMUS ADORARE EUM». Questo era il titolo dell’inno della Giornata Mondiale della Gioventù, svoltasi nel 2005, a Colonia (e dintorni tedeschi). Paleolitico, per più di qualcuno. Per me, però, ha un sapore speciale e queste parole, ripetute come un ritornello, mi risuonano nelle orecchie, ad ogni Epifania.
Questo il “chiodo fisso” di sapienti che, venuti da lontano, hanno avuto l’umiltà non solo di chiedere indicazioni stradali (già un grande miracolo!), ma, anche, di piegare le loro regali ginocchia, riconoscendo in un Bimbo un re che li sorpassava in dignità, in quanto Re dell’Universo e Creatore Onnipotente “di ogni cosa che, a proprio tempo, avviene, sotto il cielo” (cfr. Ecclesiaste, 3).

«La parola latina per adorazione è ad-oratio – contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Così sottomissione acquista un senso, perché non ci impone cose estranee, ma ci libera in funzione della più intima verità del nostro essere» (Omelia della Messa conclusiva della GMG di Colonia).

Queste semplici parole sono quelle che mi sono rimaste impresse nel cuore, di quel 21 agosto 2005. Come: proprio il fine teologo, il “pastore tedesco”, il fido guardiano della fede pronuncia un discorso così intenso ed appassionato, con venature cariche di sensualità, rispetto all’adorazione eucaristica? Sì: e così è necessario, per far spazio – anche – all’espressione dei nostri sentimenti, perché la nostra fede sia integralmente espressione della nostra umanità.

C’è un gesto liturgico, di cui si è quasi persa notizia, che sopravvive, tuttavia, nelle cerimonie di consacrazione di religiosi e sacerdoti: è la prostratio (proskynes, προσκύνησις in greco). Se, in latino, richiama, pressoché in modo identico all’italiano, il concetto di inchino così profondo, da ritrovarsi con il volto rivolto a terra, la parola greca ci fa comprendere ancora meglio il suo legame con l’adorazione, dal momento che l’etimologia indica “portar la mano alla bocca inviando riverente bacio”, riportandoci ad un significato molto vicino all’adoratio latina.

Del resto, questi due gesti sono solo apparentemente in contraddizione, per il sovrapporsi della nostra cultura a quella originaria, che, però, possiamo meglio comprendere, se ci soffermiamo su gesti quotidiani, che esprimono affetto e ci mostrano una somiglianza con quelli liturgici. Pensiamo, ad esempio, al gesto classico, con cui un ragazzo chiede alla donna che ama di sposarlo: non si inginocchia di fronte a lei, porgendole l’anello di fidanzamento? E lei non è, forse, la stessa persona cui il medesimo ragazzo dedica baci appassionati? Oppure, si rende, in certo senso, necessario, piegare le ginocchia in un gesto di cura nei confronti di un bambino piccolo o di un anziano (o – più in generale – di qualunque persona necessiti, anche solo temporaneamente, di assistenza), ad esempio, nell’allacciargli le scarpe.

Lo stesso Joseph Ratzinger, allora Cardinale, scriveva, nel 2000, a spiegazione del gesto di inginocchiarsi e del suo profondo significato ontologico, in rapporto a Dio:
«Le ginocchia erano per gli ebrei un simbolo di forza; il piegarsi delle ginocchia è quindi il piegarsi della nostra forza davanti al Dio vivente, riconoscimento che tutto ciò che noi siamo, lo dobbiamo a Lui. […] Chi impara a credere, impara ad inginocchiarsi. […] Chi vuole arrivare vicino a Dio, deve guardare in alto – è essenziale. Ma deve anche imparare ad inchinarsi, perché Dio stesso si è inchinato […]. Piegarsi davanti agli uomini, per ottenere il loro favore, è realmente qualcosa di sconveniente. Ma piegarsi davanti a Dio non è mai “non moderno”, perché è qualcosa che corrisponde alla verità del nostro essere. E se l’uomo moderno l’ha dimenticato, allora è tanto più compito nostro, come cristiani di oggi, apprenderlo nuovamente e insegnarlo anche ai nostri contemporanei».
(J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia).

«Verbum caro factum est (Il Verbo si è fatto carne)»: è l’annuncio sconvolgente, che ci consegna il Prologo giovanneo, che abbiamo letto, in questo tempo di Natale, che oggi si conclude.
Il Verbo di Dio si è fatto carne: l’Intangibile, l’Imperscrutabile, l’Altissimo Signore del Cielo e della Terra si è fatto nostro Redentore e non teme di mischiarsi con noi, in fila coi peccatori al fiume Giordano. Al contrario di tanti politici ed intellettuali che, nonostante siano uomini di carne e sangue come tutti gli altri, con snobismo sociale ed intellettuale e sociale, si rivolgono alla fazione opposta ritenendola feccia, abbiamo un Dio così innamorato di noi che non si vergogna di diventare come noi, per invitarci ad essere la migliore versione di noi (cioè, quella che possiamo ottenere solo quando, nella lotta contro il peccato, ci aggrappiamo a Lui). Lui, per primo, si è chinato: una volta, nel mistero della Sua Incarnazione, ma, continuamente, anche oggi si china, amorevolmente, sulle nostre ferite, per curare le nostre anime malate e bisognose del Medico Celeste.

Allora, perché tanto accento su una spiritualità che rischia di essere disincarnata? Anche noi siamo anime incarnate e la nostra preghiera chiede, conseguentemente, di prendere corpo.

Non abbiamo paura di inginocchiarci, per proclamare, anche senza bisogno di tante parole, il nostro atto di adorazione: «Ti amo, mio Signore e mio Dio, e ti ringrazio, perché ti sei fatto uomo, per me!».

Fonte immagine: Sancarlo.org

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