Per gli Ambrosiani, in questa domenica si festeggia la Dedicazione del Duomo di Milano.
Il Duomo di Milano non è solo un’opera d’arte e non è solo simbolo della proverbiale laboriosità dei milanesi. È innanzitutto simbolo della quotidianità, feriale e festiva, non solo per chi vive a Milano, ma anche per i comuni limitrofi. Meta di turisti che provengono da lontano, non può mancare all’appello per chiunque ami l’arte gotica. Di un gotico “particolare”, com’è inevitabile per una costruzione iniziata nel Quattrocento e completata quattro secoli dopo. Tanto che, da questo dettaglio è sorto un modo di dire: “fabbrica del Domm” è metro di paragone con tutti i lavori lunghi a finirsi.
Le “lungaggini” della sua costruzione rappresentano, del resto, un attestato di fede e di gratuità: molti infatti, tra chi partecipò alla sua costruzione era professionista. Numerosi furono infatti le maestranze ed i manovali che parteciparono, a titolo puramente gratuito, con professionalità e generosità, all’opera e ben pochi ebbero il privilegio di vedere compiuta questa colossale impresa. È quasi una metafora del Regno di Dio: ciascuno di noi è chiamato a costruirlo, dove si trova, con quello che ha ed il tempo che ha; il risultato parrà sempre piccola cosa, ma la giusta prospettiva è possibile averla solo con lo sguardo dell’aquila, che osserva dall’alto, a cose finite, l’opera compiuta. Solo allora, tutto acquista senso e significato.
In cima alle guglie, tra tante statue, tutta d’oro, svetta la “Madonnina”, tanto cara ai milanesi che, dal pavimento stradale, alzano gli occhi in su, quasi a domandarne protezione, nelle loro giornate indaffarate.
Il Duomo di Milano non è quindi – soltanto – una “bella chiesa” e neppure solo la Cattedrale dei Milanesi. È il cuore pulsante della religiosità di tutto il rito ambrosiano, diffuso, a macchia di leopardo, in Lombardia, a partire dall’opera liturgica dello stesso vescovo Ambrogio, a cui deve il proprio nome.
Paolo (Cor 3, 9-17), quasi riprendendo idealmente la parabola della zizzania, si sofferma, dopo aver chiarito che le fondamenta devono essere costituite da Cristo, sui “materiali da costruzione” (oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia), sottolineando che, solo alla fine, sarà evidente quale sia l’opera secondo la volontà di Dio.
Questo ci suggerisce che siamo invitati a non fermarci alle pietre: guardare, oggi, al Duomo, non è solo guardare ad un’opera d’arte. Ma provare a penetrare, anzitutto, il mistero di cui noi stessi siamo parte ed in cui siamo inseriti. Il nostro Duomo ci ricorda il nostro essere Chiesa particolare (con riti e tradizioni differenti da quella romana), inserita nella Chiesa Universale, il cui Capo è Cristo. È bello che sia così. La nostra differenza è ricchezza, non solo per noi, ma per tutti. Rappresenta il nostro modo di rivolgerci a Dio e di camminare incontro a Lui, che ci attende e ci precede. Essere parte del Corpo Mistico che è la Chiesa significa far parte di qualcosa di più grande di noi, che ci supera e va oltre i nostri meriti personali. Sperimentiamo che, davvero, la Chiesa è santa non per i meriti personali dei battezzati, ma perché innestati in Cristo, unico e vero Tralcio da cui tutti noi possiamo imparare l’amore e raggiungere la santità (che è realizzazione di noi stessi e del progetto di Dio su noi).
Nel vangelo, Gesù si trova a Gerusalemme e sta celebrando la festa della Dedicazione per la consacrazione del tempio: è una ricorrenza che si celebra ai primi di dicembre e, durante la quale, per 8 giorni, si accendono i grandi candelabri. È in questo contesto (in una festa nella quale, spesso, sorgevano nuovi personaggi che si facevano identificare come Messia) che i Giudei, per i quali Gesù era un osservato speciale, gli chiedono di rivelare “chiaramente” se lui lo sia (oppure no).
«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10, 30), chiosa Cristo, dopo aver sottolineato che sono i fatti concreti la vera testimonianza che sceglie per Se stesso e dopo aver esplicitato la sua missione: «dare la vita eterna» (Gv 10, 28). L’uomo cerca vita, vuole vita, è assetato di vita e non si accontenta della legge di natura che ne implica il termine. Solo in Cristo questa ricerca spasmodica trova il proprio senso perché Lui è sorgente di vita e, in Lui, tutto acquista un sapore diverso perché, con la Sua Risurrezione, abbiamo la certezza che non è al male che spetta l’ultima parola su di noi: c’è un Padre che ci ama, da sempre!
Fonti: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone
Fonte immagine: DuomoMilano