Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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«Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» questa la domanda con cui si apre il Vangelo liturgico, nella Quarta Domenica di Quaresima, che ci mostra la reazione degli apostoli, dinanzi ad un uomo cieco dalla nascita.
Di fronte al manifestarsi del male, la prima reazione è quella d’individuare la colpa, che, in un certo qual modo, ne segni l’origine. Quindi, non è – in sé – del tutto condannabile come ragionamento. La colpa, però, è sempre più facile ricercarla quando si tratta degli altri.
Ecco perché interviene la risposta di Cristo, che ci invita ad andare un po’ più in profondità, non cercando solo nel tempo e nello spazio le cause ultime del male. Il problema sta, innanzitutto, nel vedere “solo” il male, in quanto più evidente. In un istante, se pensiamo alla cecità, siamo sommersi dalle limitazioni che essa comporta: camminare e muoversi, lavorare, compiere azioni semplici e quotidiane (vestirsi, badare a se stessi), prendersi cura di sé e della propria famiglia, raggiungere quell’autonomia che vediamo costitutiva del vivere adulto paiono quasi chimere irraggiungibili, se complicate, dall’impossibile di vedere. Successivamente, viene da domandarsi se quello che dice Gesù («è perché in lui siano manifestate le opere di Dio») sia da ascriversi unicamente a questo singolo episodio, oppure se ci siano gli estremi per ricavarne, in generale un pensiero di Cristo sulla disabilità, vista, al di là del miracolo, come sede per la manifestazione delle opere di Dio.
Che si riferisca all’episodio specifico è fuori di dubbio: sappiamo bene come, in risposta a Giovanni, in cerca di conferme sulla “messianicità” di Gesù (Mt 11, 1-5), quest’ultimo insista su diversi aspetti, ma scelga, tra gli altri, il fatto che i ciechi riacquistino quale segno distintivo, in quanto citazione del profeta Isaia (in particolare: 35, 5 – 6).

[…] sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» (Gv 9, 6 – 7)

In tempi di pandemia, quando ogni luogo ha ormai acquisito l’odor di disinfettante (una volta caratteristico esclusivamente degli ospedali), forse, a sentire queste parole, potrebbe sfuggirci, l’infantile esclamazione: “Che schifo!”.
Una reazione inorridita, però, se ci pensiamo bene, è profondamente umana. Basti pensare, ad esempio, che non molto diverso è il commento del condottiero Naaman il siro, quando, saputo che in Israele un profeta di Dio avrebbe potuto guarirlo dalla lebbra, di cui soffriva, si sente rispondere da Eliseo di bagnarsi per sette volte nel fiume Giordano:

«Ecco, io pensavo: Certo, verrà fuori, si fermerà, invocherà il nome del Signore suo Dio, toccando con la mano la parte malata e sparirà la lebbra. Forse l’Abana e il Parpar, fiumi di Damasco, non sono migliori di tutte le acque di Israele? Non potrei bagnarmi in quelli per essere guarito?» (2Re 5, 11-12).

Se siamo onesti, è questo il vero motivo del disappunto. Quando ci troviamo nella necessità, quand’anche riusciamo a sconfiggere il nostro orgoglio e riusciamo a chiedere aiuto, spesso l’ulteriore ostacolo che ci costruiamo, davanti alla soluzione, è proprio la nostra immaginazione: non solo chiediamo aiuto, ma vorremmo anche essere aiutati come vogliamo noi e storciamo il naso se la modalità non rispecchiamo i film che ci siamo fatti, spesso in stile un po’ hollywoodiano.
Naaman è fortunato: ha dei servi saggi, che gli fanno notare: «Se il profeta ti avesse ingiunto una cosa gravosa, non l’avresti forse eseguita? Tanto più ora che ti ha detto: bagnati e sarai guarito»: grazie a quest’attenzione, Naaman compie quanto gli era stato detto e  la sua carta ridiventa “come la carne di un giovinetto” (2 Re 5, 14). Quante volte, invece, la nostra ostinazione ci ha impedito di ottenere una vera guarigione dalle nostre ferite, non perché la guarigione non fosse raggiungibile, ma perché rifiutavamo di accettarne le modalità con cui essa poteva raggiungerci? Temo molte.

Fango, saliva, acqua. Il resto, alla libera obbedienza dell’uomo. In fondo, anche adesso, Cristo agisce così nei suoi atti propri. Forse noi ci aspetteremmo, da Lui, grandi manifestazioni, mentre, con certezza, Lui ha affermato di essere presente nei sacramenti che ha lasciato alla Sua Chiesa come i sassolini di Pollicino: un percorso per trovare la strada verso casa. Acqua, olio, uva, grano, una persona che ascolti una testimonianza, l’atto di unione tra due sposi cristiani… è in questo modo che Cristo, ancora oggi, manifesta la propria presenza. Tramite la concretezza di gesti e segni semplici, che rendono accessibile il mistero, senza, però, svelarlo del tutto. Perché l’uomo ha bisogno di nutrirsi anche del mistero, per poter crescere in una relazione (basti pensare che anche in relazione ai propri simile, tutte creature ferite dal peccato, il mistero rende profondo e avvincente il legame che si crea).

Anche il cieco, del resto, pur guarito, non ha compreso tutto. Sembra, anzi, quasi frastornato, dalle improvvise che riceve: prima, cieco, sembrava non essere rilevante agli occhi degli altri: ora, la sua vista ritrovata sembra quasi che arrechi fastidio, disturbi le lineari spiegazioni (dei discepoli, dei giudei), metta in discussione l’agire dei suoi stessi genitori.  

«Una cosa io so: prima non ci vedevo e ora ci vedo» (Gv 9, 25)

Questo risponde il cieco a chi, ora che la vista gli è tornata, non trova di meglio che far domande, questionando sulla moralità dell’oscuro (per il cieco, che non poteva vederlo!) guaritore. Il paradosso risiede proprio qui: è chiesta una testimonianza a un uomo che era cieco, che, cioè, nel momento in cui è stato guarito, non aveva la possibilità di guardare in faccia il proprio benefattore. E che, certo, a fronte del risultato ottenuto, dopo anni di speranza disattesa, non poteva certo svilire il dono di riavere la vista, solo perché ciò era avvenuto nel sabato, giorno di riposo, in ricordo del divin riposo, seguente alla creazione.  A queste parole, che alcuni ritengono reticenti, altri complici, qualcuno, invece sospettose, altre ne risuonano. Quelle di Frodo Baggins che, inaspettatamente per tutti, quasi senza rendersene conto egli stesso, si candida, durante il consiglio di Elrond (Il Signore degli anelli, J.R. R. Tolkien):

«Porterò io l’anello a Mordor. Solo… non conosco la strada».

Solo… in quella parola, c’è tutta la consapevolezza della propria piccolezza, della propria mancanza, del proprio limite. Entrambi sanno di non sapere qualcosa, di non conoscere tutto. Il cieco non sa come possa essere avvenuta la propria guarigione. Ha sentito una voce, ha ricevuto un comando, l’ha eseguito e ha riacquistato. Che cosa abbia compiuto il miracolo non lo sa… non conosce nemmeno il volto responsabile di un cambiamento tanto radicale, nella sua vita. I giudei domandano, questionano, sezionano ogni aspetto di quanto accaduto, mandano a processo lui e i suoi genitori. Lui è euforico, quasi sragiona… non capisce tante cose, ma gli basta quella realtà così sorprendente: i suoi occhi non avevano mai visto e ora sono in grado di distinguere la luce, i colori e tutta la bellezza del creato. Se ha un rimpianto, forse, è proprio quello di non poter vedere e ringraziare il proprio benefattore; rimpianto che, ben presto, è ampiamente esaudito in un incontro, che è quasi commovente, con il Cristo.
Anche Frodo, d’altro canto, è consapevole dei propri limiti. Viene da un mondo che è abituato alla tranquillità e alla compagnia dello stare insieme in allegria, non ha tradizioni militari né onori da difendere. Comprende perfettamente di non essere il prototipo di “eroe” che chiunque, probabilmente, compreso lui, ci si aspetta, per compiere un’impresa memorabile. Non si candida perché si ritiene il migliore, né perché pensa di conoscere tutto. Sa di non sapere tante cose, a partire da un dettaglio di non poco conto: come giungere a destinazione. Non si offre per vanagloria, non si offre per onore, ma con la generosità e in vista di un bene (la salvezza della Contea e della sua gente), portando in dote tutto e solo ciò che possiede, pur nella povertà del suo dono: se stesso.

C’è un’inconsapevolezza, che convive con un profondo senso di realtà. È la realtà stessa che mi trascende: non riesco a comprenderla fino in fondo. Eppure, è giocandomi, con generosità, anche quando non la comprendo, che posso riemergere con la consapevolezza di vivere in pienezza ciò che mi è dato di assaporare.

Il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico. (Es 33, 11)

Forse, in quest’espressione, troviamo cos’abbia portato davvero il cieco alla fede in Cristo. Il cieco che, riacquistata la vista, aveva perso tutto il resto, è bene ricordarlo. Sul finire dell’episodio, infatti, leggiamo che è scacciato dalla sinagoga, cioè allontanato dalla comunità dei credenti. Quella comunità che lo tollerava prima, perché, probabilmente, nonostante lo ritenesse “tutto nato nei peccati”, essendo dedito all’elemosina, considerava che, in quel modo, avrebbe potuto purificarsi; ora, guarito in giorno di sabato, la sua stessa presenza è diventata un monito insopportabile (quasi un dito perennemente puntato contro le loro – apparentemente granitiche – certezze). La sua presenza è fastidiosa come una domanda inevasa: molto meglio cacciarlo via, invece che affrontare gli interrogativi della realtà, capaci di mettere in crisi la perfezione della teoria. 
Il cieco nato, riacquisita la vista, deve aver sperimentato, in modo misteriosamente sublime, la bellezza di occhi che dimorino nei tuoi occhi, soffermandovisi. Di una domanda, posta guardandoti negli occhi, e ascoltando poi la tua risposta, con sollecita attenzione e non con indaffarato pressapochismo.
In una parola: ha sentito la benedizione dello sguardo di Dio posato su di sé e sulla propria vita, proprio quando aveva il sapore della sconfitta e della beffa.
È in quel momento che è sgorgata la risposta della fede.


Rif: letture festive ambrosiane, nella 4 domenica di Quaresima, anno B

Fonte immagine: ytimg

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