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E’ gente esperta del sottosuolo. Non fosse per la divisa che portano cucita addosso, si direbbe che sono fratelli-gemelli dei minatori: come questi ultimi scavano nella terra alla dannata ricerca delle pepite d’oro che poi affideranno alla maestria dell’artigianato orafo, così gli altri abitano negli scantinati della società – le patrie galere – per andare a recuperare quelle storie dis-graziate e poi affidarle al buon cuore della società cosiddetta civile. Gli agenti della Polizia Penitenziaria pochi li conoscono per davvero, forse per quell’arte anonima che chiede loro di vivere isolati dal mondo parimenti ai condannati dei quali hanno il compito di custodia. Il loro sottosuolo è il carcere, la terra-di-nessuno che loro abitano indossando fieri ed orgogliosi la loro divisa. Per chi l’indossa, la divisa è appartenenza e orgoglio, ali e radici, passione e patimento. E’ un prezzo densissimo da pagare: «Quando guardi un soldato o un poliziotto o un qualsiasi custode del potere – scriveva la giornalista Oriana Fallaci -, non vedi che l’uniforme; da quella passi direttamente al berretto o all’elmetto, saltando il volto e la testa». La divisa è una protezione, certuni giorni è pure una condanna: sembra voler togliere a tutti i costi il volto e la testa di chi la indossa. Eppure, nascoste dietro, ci sono storie di uomini e di donne in tutto e per tutto simili a qualunque altra storia sulla faccia della terra.
A Padova, il vescovo Claudio ha voluto – nella sera d’inizio estate che fa memoria della festa di san Basilide (30 giugno), loro patrono – ridare agli agenti della Polizia Penitenziaria quello sguardo che sovente la divisa preclude loro. Celebrare una messa giubilare in loro compagnia è stato un fare memoria della convinzione poetica cantata da Pontiggia: «Soldati: operatori di pace!». I detenuti sono l’informazione-prima del carcere: la materia senza la quale nessuna galera avrebbe senso, assumerebbe significato. Gli agenti di Polizia sono l’informazione-seconda del mondo galeotto: sono loro a custodirne le chiavi, a decifrarne la sicurezza, a tentare l’ardua sfida di rimettere in piedi esistenze paralitiche e in fase di decomposizione avanzata. Sul motto del loro corpo recano scritta un’identità che, da sola, farebbe tremare le gambe ad un titano: “Despondere spem munus nostrum” (“Diffondere la speranza è la nostra missione”). La speranza nella disperazione, quella più cupa e lamentosa: pochi ossimori sanno tenere, legati in unità, due opposti senza necessariamente farli apparire insulsi. Saper incrociare uno sguardo dietro un uomo in divisa è riconoscere la fratellanza laddove vige la lontananza, l’intimità nella terra del formalismo, l’affetto nel paese dove la manutenzione degli affetti non ha più diritto di cittadinanza. Un vescovo ne incrocia gli sguardi, ne aggancia la miseria e la grandezza, spezza una parola in loro compagnia: la speranza accresce, a solitudine diminuisce, il carcere torna ad essere una bella occasione d’umanità.
Il vescovo-dei-poveri, pregando con gli agenti, ancora una volta s’è messo dalla parte dei poveri, scegliendo di farsi alleato degli uomini in divisa: anime in cerca di pace pure loro. Le divise in preghiera? I soldati sono coloro che pregano di più per la pace, perchè sono loro che patiscono e provano le ferite più profonde di una guerra. Servire i detenuti è fare il bene, servirli attraverso la presenza discreta e delicata degli agenti di polizia è fare il bene fatto-bene: è sempre forte il rischio che un certo bene diventi, alla lunga, male. «Dacci luce e pace – recita la preghiera a san Basilide – perchè riusciamo a svolgere bene il nostro difficile compito di tutelare la società nell’aiutare chi ha sbagliato per debolezza a ritrovare il senso morale della vita». Un’avventura: far diventare grande una società senza far sentire piccolo nessuno. Mica un affare per tutti.

(da Il Mattino di Padova, 3 luglio 2016)

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