Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Ci passo davanti quasi ogni giorno. Sotto la pioggia oppure il sole, con il caldo o con il freddo, di fronte ad una piazza vuota oppure gremita, mentre si svolgono eventi oppure alle prime luci dell’alba, quando la pur laboriosa Milano ancora sonnecchia. È il Duomo.
Puoi averlo visto un milione di altre volte, eppure, ogni santa volta, quando te lo trovi lì davanti, in tutta la sua maestosa e sapiente beltà, è un tuffo al cuore.
I milanesi se ne lamentano sempre (hanno la tendenza a lamentarsi molto più di quanto dovrebbero, soprattutto perché, rispetto ad altre città, hanno spesso opportunità pressoché impensabili) per le continue impalcature, inevitabili per ripristinare continuamente l’originario candore del marmo che ne caratterizza gli esterni (lavoro che prevede, tra l’altro, il restauro di ogni singola statua che l’adorna – sono più di 3000!).
Questa settimana, ricordiamo la Dedicazione della Cattedrale e noi ambrosiani siamo chiamati a guardare a quest’ospite, imponente e difficile da ignorare in una città pur brulicante di vita, di edifici, di opportunità di ogni tipo, come la capitale meneghina.
Il primo pensiero non può che andare alla sua costruzione, durata quasi cinquecento, anni e, in un certo senso, mai finita: metafora della vita stessa, in cui siamo chiamati a “costruirci”, quotidianamente, per poter raggiungere la miglior versione di noi stessi. Il lungo tempo che è stato necessario alla sua costruzione rappresenta, del resto, un attestato di fede e di gratuità: molti infatti, tra chi partecipò alla sua costruzione era professionista. Numerosi furono infatti le maestranze ed i manovali che parteciparono, a titolo puramente gratuito, con professionalità e generosità, all’opera e ben pochi ebbero il privilegio di vedere compiuta questa colossale impresa. È quasi una metafora del Regno di Dio: ciascuno di noi è chiamato a costruirlo, dove si trova, con quello che ha ed il tempo che ha; il risultato parrà sempre piccola cosa, ma la giusta prospettiva è possibile averla solo con lo sguardo dell’aquila, che osserva dall’alto, a cose finite, l’opera compiuta. Solo allora, tutto acquista senso e significato.
La prima lettura ci aiuta a richiamare l’essenziale:

«Il sole non sarà più la tua luce di giorno, né ti illuminerà più lo splendore della luna. Ma il Signore sarà per te luce eterna, il tuo Dio sarà il tuo splendore » (Is 60, 19)

Al di là della magnificenza creativa, opera delle migliori maestranza e della generosità umana, ogni chiesa raggiunge il proprio scopo fondamentale solo nel momento in cui diventa richiamo dell’Eterno. Al di là delle forme, ogni volta diverse e influenzate dalla cultura artistica del tempo, ciò è possibile se si affronta la difficoltà di mettersi in ascolto. Non è la natura l’ispirazione dell’artista religioso, bensì il Creatore stesso diventa Luce per illuminare di Sé l’intera creazione, che diventa, allora, riflesso dello splendore di Chi ne è artefice. Solo nella memoria di questo, ogni artista può iniziare la propria opera e noi possiamo apprezzarla. L’artista sacro, che si allontani da questo, ha già abdicato al proprio compito peculiare, di cui assaporiamo l’urgenza, a maggior ragione, in una città frenetica, competitiva, dedita al lavoro quasi come un idolo. In un contesto del genere, diventa ancora più indispensabile che l’arte stessa sia il primo monito alla corsa della nostra mente, prima ancora che delle nostre gambe. Fermarsi diventa già il primo passo di adorazione, se in quella sosta c’è il riconoscimento della gratitudine per i doni ricevuti da Dio, di cui spesso non ci avvediamo, perché non vi badiamo, nonostante ciascuno di noi vi sia immerso quotidianamente.

Nella spiritualità ebraica, il tempio è “casa di Dio”: l’edificio stesso rappresenta la Sua presenza, anche perché le vicissitudini del tempio di Gerusalemme, più volte distrutto, richiamano la difficoltà, per il popolo d’Israele, sia di edificarlo (dopo essere stati raminghi, non è facile trovare le risorse necessarie), sia di proteggerlo dalle invasioni straniere, che si sono succedute nel corso della storia.

Le altre due letture sono di tutt’altro segno. Nel Nuovo Testamento, infatti, l’edificio di culto perde la sua importanza, a vantaggio di chi ne fa uso.

Noi stessi siamo l’edificio spirituale in cui abita Dio (Paolo dice che i nostri corpi sono tempio dello Spirito Santo). Del resto, le prime comunità cristiane trovavano motivo unificante nel loro stesso riunirsi, mentre, spesso, anche per via delle persecuzioni, non avevano una sede fissa per le riunioni in cui “spezzavano il Pane”. Diventava, allora, ancora più legante, la presenza dell’Eucaristia: motivo di comunione e vero tesoro, custodito all’interno delle nostre chiese e centro delle nostre assemblee domenicali.
C’è un breve accenno ai «capi», con l’augurio che svolgano il loro compito «con gioia e non lamentandosi»: in questo periodo, che, nelle parrocchie, coincide con l’inizio effettivo dell’anno pastorali con tutte le incombenze (anche amministrative) che comporta, ci suggerisce che, per un cristiano, la “necessità” di un apparato direttivo è intesa in modo nuovo e peculiare, cioè come un servizio, reso alla comunità, che, partecipe, collabora all’edificazione collettiva.

Nel vangelo di Luca, torniamo a trovare una metafora edilizia, che però ha delle fondamenta particolari: la Parola di Dio, che non è solo e semplice ascoltata, ma accolta e messa in pratica, pur con tutti i limiti legati al nostro essere uomini e donne, feriti dal peccato originale e soggetti all’errore. Ritorniamo a parlare del tesoro, di cui si accennava nella liturgia precedente: il tesoro su cui fondare la propria vita è Dio stesso. Perché ognuno diventa ciò che ascolta. Non in automatico, né per osmosi, beninteso. Non è possibile pensare di raggiungere coerenza tra fede ed opere, senza una fede solida, costruita nel rapporto con Dio, sul quale si innesta la volontà di testimoniare, nella concretezza, l’appartenenza a Gesù, persino quando ci chiede qualcosa contro il nostro (apparente) interesse, come le parole dure sul perdono, sulla misericordia, sulla fedeltà nella sequela.
È impegnativo seguire davvero Gesù: richiede un lavoro di precisione, di costanza, di pazienza, come quello dei marmisti, che, con caparbietà, rinnovano il candore del marmo del Duomo, per riportarlo agli antichi splendori. Non dobbiamo scoraggiarci di fronte ad un’impresa che pare titanica, perché il Vangelo ci ricorda che il primo passo rende gli altri dei piccoli passi possibili: una volta messo Dio al centro, le preoccupazioni si trasformano in occupazioni ed ogni questione potrà trovare il posto che le compete.

Rif: letture festive ambrosiane, nella Dedicazione della Cattedrale (Is 60, 11-21; Eb 13, 15-17.20-21; Lc 6, 43-48)


Fonte: Parole Nuove, don Raffaello Ciccone

Per approfondire: youmanist.it

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