Articolo di Mons. Francesco Lambiasi tratto da “Avvenire”, 23 novembre 2006.immaginazioneUn’immagine che è tutto un programma. A un mese di distanza, il Convegno di Verona rimanda una delle immagini più nitide e parlanti della Chiesa italiana di questo inizio di Millennio: una folla di 2.700 credenti, uomini e donne di età, sensibilità e responsabilità diverse, provenienti dalle 226 diocesi d’Italia: un popolo, il grande popolo di Dio, capace di far coro. Non per stare lì a cantarsela e a suonarsela, ma per riflettere, contemplare, scambiarsi progetti, esperienze, cammini. Emblematici anche i tre luoghi delle assemblee ecclesiali: l’arena, la fiera, lo stadio. Il Papa lo rimarcava per il “Bentegodi”, che ha ospitato la grande celebrazione eucaristica: in questi tre “moderni areopaghi” – i luoghi della cultura, degli affari, dello sport – è risuonata la bella notizia: “Cristo è risorto; noi ne siamo testimoni”. Quasi a dire che il vangelo è un lievito che può fermentare tutti i territori del vissuto: quelli del bello, dell’utile, e – con buona pace dei nipotini dei “maestri del sospetto” – anche quelli del piacere. Niente di ciò che è veramente umano ci è estraneo. A Verona è emerso il “popolo del grande sì”: una Chiesa non compiacente né aggressiva, ma neanche avvilita o rassegnata, e mai e poi mai supponente o arrogante. Un popolo con uno sguardo fisso – sul Risorto – e con un solo pensiero: il bene dell’uomo, la sua promozione, e – perché no? – la sua gioia. Perché la contemplazione del Risorto ci abbaglia, ma non ci acceca, anzi ci accende lo sguardo per vedere Lui dentro gli stracci del barbone, nelle carni del malato, nella dedizione dell’educatore, nella gioia dell’innamorato, nella fatica del lavoratore, nell’estasi dell’artista. Un popolo di figli, che non possono mai sentirsi orfani, perché immensamente e perdutamente amati, non per loro merito, ma per puro dono, e con una responsabilità grandissima: andare a dire tutti che Dio non è un faraone o un boss implacabile; non è un padre-padrone arcigno e lamentoso. Il Dio di Gesù di Nazar et è l’Abbà, il Padre-Papà che desidera solo farci felici. A Verona Benedetto XVI ci ha dato la carica: il cristianesimo non butta l’acqua sporca con tutto il bambino; non manda al macero i valori della modernità: li mette al sicuro. A cominciare dal principio architettonico della morale del padre dei Lumi, I. Kant: “Considera l’umanità, sia in te che negli altri, sempre come fine e mai come mezzo”. Come non sottoscrivere, se Dio per primo ha fatto dell’uomo e della sua salvezza il fine della sua opera? Ma allora perché avere paura del messaggio cristiano? La fede non uccide l’intelligenza, la tiene in vita. Il vangelo non spegne la razionalità, l’affettività, la sessualità: le mantiene in quota. Il divino non boccia l’umano e non lo schiaccia: lo promuove e lo esalta. I cattolici italiani non hanno alcuna intenzione di prendere in giro chicchessia, ma sono anche sufficientemente maturi e sereni per non farsi intimidire né imbambolare. Essi sanno pure che è ormai giunto al capolinea il cristianesimo dell’abitudine, e sta nascendo il cristianesimo dell’innamoramento: quello del “grande sì”. Questo sì a Verona è stato detto, ma ora bisogna continuare a declinarlo al carissimo prezzo di tre no chiari e forti ad altrettanti virus letali per l’evangelizzazione: il clericalismo, l’intimismo, il burocratismo.La Chiesa disegnata a Verona non pensa affatto di fare sconti su questo prezzo, perché sa di vivere nel e per il “bel paese là dove ‘l sì suona”.

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