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Mosè, nel libro del Deuteronomio, fa memoria del proprio passato e di quello d’Israele. “Arameo errante” fa riferimento agli antenati d’Israele, ed in particolare Giacobbe: discendevano da una popolazione proveniente dalle zone della Siria e dell’Assiria ed erano nomadi. In seguito, arrivarono in Egitto, dove vissero l’esperienza della schiavitù; prostrati ed umiliati, gridarono a Dio, che, dopo molte perizie, li fece finalmente giungere nella Terra Promessa.
Far memoria è operazione preliminare all’esame di coscienza e, giocoforza, ci conduce ad un moto di gratitudine. Al netto di tutto, infatti, chiunque troverà sempre motivi per ringraziare il buon Dio, che attestano la volontà divinamente paterna di “dare cose buone ai propri figli” (Lc 11,13-14). Infatti, al termine del ricordo del passato, che costituisce l’identità del popolo d’Israele, l’invito è quello di offrire le primizie. Raggiunto un luogo sicuro e ricco di risorse, che consente al popolo di vivere in prosperità, non può dimenticarsi né del passato, né del Signore che lo ha assistito in ogni tempo ed in ogni luogo. Ecco, quindi, la tradizione delle primizie, che significa riservare a Dio una parte dei frutti del proprio lavoro, ma, attenzione, la migliore. Questo aspetto dovrebbe essere ripreso: a Dio si offrono – sempre – le cose migliori: da questo passa il rispetto per Lui e le cose che Lo riguardano e la gratitudine nei Suoi confronti. Basti pensare a cosa scrivesse san Francesco, che pure non disdegnava di dormire sulla nuda e di vestire nel più sobrio dei modi, non trattenendo nulla per sé:

Vi prego, più che se riguardasse me stesso, che, quando vi sembrerà conveniente e utile, supplichiate umilmente i chierici che debbano venerare sopra ogni cosa il santissimo corpo e sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di lui scritte che consacrano il corpo.
I calici, i corporali, gli ornamenti dell’altare e tutto ciò che serve al sacrificio, debbano averli di materia preziosa.
E se in qualche luogo il santissimo corpo del Signore fosse collocato in modo troppo miserevole, secondo il comando della Chiesa venga da loro posto e custodito in un luogo prezioso, e sia portato con grande venerazione e amministrato agli altri con discrezione (Francesco d’Assisi, Prima lettera ai custodi: FF 241)

Sul finale del brano biblico. la raccomandazione di Mosè è alla condivisione della gioia:

Gioirai, con il levita e con il forestiero che sarà in mezzo a te, di tutto il bene che il Signore, tuo Dio, avrà dato a te e alla tua famiglia (Deut 26, 11)

La gioia è fatta per essere condivisa: solo così, si moltiplica. Questo afferma la stramba matematica divina, che però è attestata anche dall’esperienza quotidiana di noi uomini. Avere tutto, in solitudine, non è mai una situazione bella. Tanto è vero che abbiamo un tasso di suicidi maggiore nelle società industrializzate che nel Sahel o nell’Indocina, territori più poveri di denaro, ma più ricchi di reti sociali e con una solitudine meno accentuata, rispetto alle nostre società.
Perché proprio il levita ed il forestiero? Il levita, spesso accomunato grossolanamente al sacerdote, in realtà viveva la grossa differenza di non aver diritto ad alcuno “stipendio” e di vivere, quindi, grazie alle elemosine che riceveva. Il forestiero, invece, essendo arrivato da altri luoghi, difficilmente aveva un’occupazione (e, conseguentemente: un reddito) stabile. L’ebreo, nella sua grata memoria del passato, è, quindi, chiamato a condividere la gioia della libertà proprio con chi, per motivi differenti, si trova nella precarietà e nell’incertezza.

San Paolo, nella lettera ai Romani, ci invita a uno sguardo complessivo sul mondo, che non rinunci allo stupore:

le sue [di Dio] perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute (Rm 11,20)

In questa prospettiva, la Parola di Dio, incarnata in Gesù non è una novità assoluta, bensì, piuttosto, la chiarificazione ed il compimento di quel protendersi di Dio verso l’uomo, che non è mai mancato in tutta la storia, ma che si è reso esplicito, con l’Incarnazione, in vista della Redenzione del mondo.

Il brano evangelico, offerto dalla liturgia della V settimana di Quaresima, è oltremodo ricco di spunti. Partendo da una situazione-tipo di Gesù che, in compagnia dei suoi discepoli, svolge il suo ministero itinerante, siamo catapultati nel mondo degli affetti di Gesù, in cui, accanto a persone che ama, riflette sulla vita e sulla fede. Lazzaro, uno dei tre fratelli che, con Marta e Maria, erano amici di Gesù e punto di riferimento nel suo vagare, si ammala e, in breve tempo, muore.
Gesù, parlando della morte come di un sonno, è frainteso dai propri discepoli, che vedono il sonno come positivo riposo che possa portare a guarigione l’amico malato del Maestro. Di fronte a questo misunderstanding, Gesù non ha paura di chiamare la morte col proprio nome, pur di porre fine al fraintendimento. E, finalmente, si decide a partire, direzione Betania.

«Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (Gv 11,21)

Questa è la frase con cui lo accoglie Marta. Quasi un rimprovero, per non essere venuto prima.
Di fronte alla fede, questo è forse il malinteso a cui siamo più spesso posti di fronte. Ci illudiamo che la fede possa esimere il credente dall’affrontare prove o difficoltà, oppure sia garanzia di mancanza di preoccupazioni, situazioni spiacevoli, imprevisto. Qualcosa del tipo “Se Dio è con noi, chi può essere contro di noi?”… in realtà, molte cose o persone possono porsi in contrasto anche con chi sta dalla parte di Dio. Quel che è vero è che chi crede potrà vivere, persino i contrasti più aspri, nella consapevolezza, che anche la fine della vita non è il fine ultimo di essa. Alle volte, ci è chiesto – ed è necessario – passare attraverso delle prove, che potrebbe anche voler dire sperimentare proprio il silenzio di Dio. Come passati attraverso il crogiolo, solo oltre le difficoltà, potremo dire di avere creduto: non per tradizione, non per abitudine, non perché conveniente, ma perché convinti nel profondo di noi stessi che «Dio non abbandona mai i suoi figli» (Benedetto XVI, 17.3.2010, conferimento cittadinanza onoraria di Romano Canavese) ed è sempre presente, anche e soprattutto nelle situazioni di avversità, persino quando noi non ce ne rendiamo conto.

Nel ventre di una madre c’erano due bambini.
Uno chiese all’altro: “ci credi in una vita dopo il parto?” L’altro rispose : “e’ chiaro. Deve esserci qualcosa dopo il parto. Forse noi siamo qui per prepararci per quello che verrà più tardi”. “Sciocchezze”, disse il primo. “non c’è vita dopo il parto. Che tipo di vita sarebbe quella?”
Il secondo disse: “io non lo so, ma ci sarà più luce di qui. Forse noi potremo camminare con le nostre gambe e mangiare con le nostre bocche. Forse avremo altri sensi che non possiamo capire ora”. Il primo replicò: “questo è un assurdo. Camminare è impossibile. E mangiare con la bocca!? Ridicolo! Il cordone ombelicale ci fornisce nutrizione e tutto quello di cui abbiamo bisogno. Il cordone ombelicale è molto breve.
La vita dopo il parto è fuori questione”. Il secondo insistette: “beh, io credo che ci sia qualcosa e forse diverso da quello che è qui. Forse la gente non avrà più bisogno di questo tubo fisico”. Ma Il primo contestava: “sciocchezze, e inoltre, se c’è davvero vita dopo il parto, allora, perché nessuno è mai tornato da lì? Il parto è la fine della vita e nel post-parto non c’è nient’altro che oscurità, silenzio e oblio. Non ci porterà da nessuna parte”. “Beh, io non so”, disse il secondo, “ma sicuramente troveremo la mamma e lei si prenderà cura di noi”. Il primo replicò: “Mamma, tu credi davvero a mamma? Questo è ridicolo. Se la mamma c’è, allora, dov’è ora?” Il secondo disse: “Lei è intorno a noi. Siamo circondati da lei. Noi siamo in lei. È per lei che viviamo. Senza di lei questo mondo non ci sarebbe e non potrebbe esistere”. Il primo concluse: “beh, io non posso vederla, quindi, è logico che lei non esista”. Anche il secondo concluse: “a volte, quando stai in silenzio, se ti concentri ad ascoltare veramente, si può notare la sua presenza e sentire la sua voce da lassù”.

È difficile – e, al contempo, affascinante – pensare alla vita oltre la morte. Come sarà? Cosa aspettarsi? Questa lettura, nella semplicità di una favola, aiuta ad entrare nella prospettiva migliore. Noi, consapevoli del postparto, sappiamo per certo che una tale vita esiste e ci fanno sorridere i discorsi dei due gemelli. Noi, però, in questo momento, sperimentiamo gli stessi dubbi dei gemelli nel ventre materno: non conosciamo altro modo per respirare che tramite i polmoni, non conosciamo altro mondo che quello in cui viviamo. Ci risulta, quindi difficile, anche solo ipotizzare qualunque altra possibilità. “Tutto porta scritto: più in là”, scriveva Montale. Ci aggrappiamo a quella certezza di una Voce, di un alito di Vita, che è intorno a noi, anche quando non ce ne avvediamo: la provvida Maternità di Dio si fa carico di noi ogni giorno. È dentro questa fede che si salda la speranza che non si concluderà ogni cosa con l’ultimo battito del nostro cuore, con l’ultimo respiro dei nostri polmoni.

Rif: letture festive ambrosiane nella V domenica di Quaresima, anno C – Dt 6,4a;26,5-11; Sal 104; Rm 1,18-23a; Gv 11,1-53


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole nuove

Fonte immagine: Pixabay

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