Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Giuseppe: “Colui che aggiunge”

Nel nome di battesimo era già tratteggiato anche il suo destino: gli misero nome Giuseppe, che nella lingua ebraica significa “Colui che aggiunge”. Che-cosa aggiunse, lo vedremo fra poco. Nacque a Betlemme di Giudea, siamo nel sud della Giudea: quell’uomo, dunque, era un meridionale. Annessi e connessi dell’essere un uomo del Sud. Era un uomo sui trent’anni, «un bell’uomo, capelli corti e piuttosto ricci, di un castagno morato come barba e baffi. Ha occhi scuri, buoni e profondi, seri molto, direi anche un po’ poco tristi. Ma però quando sorride divengono lieti e giovanili»: così ce lo racconta Maria Valtorta. Il suo mestiere era una manodopera molto richiesta a quel tempo, una sorta di specializzazione: lavorava nel settore della carpenteria, più carpentiere che falegname, dunque. Ma anche chiodi, martello, legni. E qui c’è già una mezza rivelazione: ci sono i mezzi blindati, ci sono i potenti laser, ci sono i missili teleguidati che ci consentono di fare la guerra dal computer. C’è tutto questo, eppure Gerico è caduta al suono delle trombe, Davide-fanciullo ha vinto l’invincibile-Golia con una piccola fionda e un sassolino ficcato al posto giusto. E’ evidente l’atteggiamento del Cielo quando decide d’imbastire la guerra al mondo di quaggiù: Dio dà importanza alle cose che fanno poco chiasso. Alle storie di silenzi, come quella che ha come protagonista Giuseppe: con Dio, chi meno si sente sicuro è colui che, alla fine, vince la partita.
Giuseppe, per l’appunto, fu uno di questi: partendo-da-zero, s’era fatto una posizione, come diciamo noi oggi. Il suo è uno dei quattro mestieri più antichi e più sacri: il contadino, quello che rompe la zolla e ne ricava il pane. Il muratore, quello che squadra la pietra e innalza la casa. Il carpentiere, quello che torce il ferro per dare la spada al soldato, l’aratro al contadino. Il falegname, quello che sega e inchioda il legno per costruire la porta, che custodirà la casa. Sono la penultima classe: più sotto di loro solo i vagabondi, i mendicanti, i fuggiaschi, gli schiavi i criminali e le prostitute. Giuseppe abita questa classe sociale: pur discendente di re, non appartiene alle caste della borghesia. Fate bene attenzione: nessuno, degli evangelisti che raccontano qualcosa che lo riguarda, parla di lui come fosse vecchio. Era giovane, dunque: probabilmente bello, innamorato. Tanto che era ormai in procinto di accasarsi, a Nazareth, con una ragazza del posto, poco più che quindicenne: Myriam. Era un uomo di bottega, pratico: di profeti il suo popolo ne aveva avuti un’iradiddio, e quasi tutti erano morti senza riuscire a vedere il frutto delle loro visioni. Era di manodopera che aveva assai bisogno la terra di Giudea. Aveva aperto bottega e, voi lo sapete, in bottega si parla un po’ di tutto: di affari, di donne, di uomini e di stagioni. Del tempo che passa, della materia da lavorare, degli sguardi furtivi, funambolici. Gli artigiani sono tutti un po’ dei visionari: riescono ad intravedere un volto là dove il resto dell’umanità non vede che una materia informe. In quanto alla sua carriera professionale, tra tutti gli umani è rimasto il solo a poter dire, senza correre il rischio di mentire o esagerare, d’avere avuto Dio come apprendista-garzone: Il Dio-bambino nascerà in una stalla ma, se ricordate, «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52) nel trambusto di una bottega: quasi quattro lustri – e immagino che Dio avesse cose ben più importanti da fare! – a stringere il ferro, a scheggiarsi le unghie, a respirare l’odore di resina, grasso, vernice. Fa impressione, sin quasi a mettere in imbarazzo, pensare Cristo nel mentre sta lavorando con la pialla un legno, scaldando col fuoco un ferro, nel mentre si sputa la saliva sulle mani: è proprio questo, invece, quello che l’evangelista vuol dirci quando annota che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). E’ il Dio-bambino che sta nelle spalle di Giuseppe: nessuna piramide o colonna dell’antichità è più alta delle spalle di un padre. Quando isseranno il Figlio sul patibolo, anche in quell’ora ci saranno i medesimi rumori di bottega, gli stessi odori. Quando inchioderanno il Figlio, Giuseppe se ne sarà già andato nel dimenticatoio della memoria: la sua fortuna sfumerà nel destino di Lui. Succede sempre così. Non a tutti: solo ai padri umili di creature grandiose.
Tutto semplice, dunque.
Semplice solo in apparenza.
L’unico inghippo era la pancia-gonfia di Myriam, che un giorno gli apparve improvvisa, oseremmo dire inaspettata: «Si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18). Incinta per opera dello Spirito Santo: se non pare un insulto al buon senso, poco ci manca. E’ il Cielo che collassa sopra l’animo più semplice, l’unico vergine, di un intero casato. Non esiste una prova più dura di questa per un uomo: nessuno potrebbe azzardarsi di giudicare qualcuno che sia incappato in una simile disavventura senza prima averla attraversata. Nessun pittore potrebbe pennellare con esatta verità il dolore di Giuseppe, i pensieri, il turbamento del cuore. Somiglia, la sua anima, ad una piccola barca in un mare pieno di tempesta: era un uomo, in apparenza, tradito dalla donna-amata. Gli piombò addosso il Cielo, e il Cielo si tirò dietro a strascico tutto il resto, una valanga: il buon nome, la stima del mondo, la sua reputazione. A causa di lei si sentiva già segnato a-dito, compassionato dal paese, sentiva mancare la stima nei confronti di Myriam: «Guardai Joseph per la prima volta. Conoscevo la sua faccia serena anche sotto le mosche e la fatica. Ora vedevo un uomo desolato che provava a governare la situazione progettando delle menzogne» (E. De Luca, In nome della madre). Nessuno tra gli umani, men-che-meno Maria, potrebbe tentarne la giustificazione. Brevi, ma tremendi per intensità di dolore, quei tre giorni della passione di Giuseppe: «Fosse stato men santo, avrebbe agito umanamente, denunciandomi come adultera perchè fossi lapidata e il figlio del mio peccato perisse con me» (M. Valtorta). Un giorno, cresciuto come un bellimbusto, il Figlio dirà: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei» (Gv 4,5). Chissà: forse l’immagine gli è nata a Betlemme, quando Giuseppe non l’ha scagliata addosso alla Madre, addosso a lui che le era nel grembo. Non s’era mai sentito un’enormità simile: che un uomo accettasse di diventare sposo-secondo di una donna incinta di un altro. Ci vuole un coraggio immenso per dimostrarsi fragili. Per dirsi uomini.
Ogni bellezza è complicata. E il Cielo, questo, lo sa.

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L’annunciazione dell’angelo a Giuseppe.

Carpentiere o falegname che fosse, Giuseppe conosceva, per guadagno di mestiere, l’arte del riparare. Del rimettere mano alle cose rotte, alle storie frantumate. E’ un fatto che da noi non si usa più: appena si rompe qualcosa, lo si butta, per comprarne uno di nuovo. Appena si rompe un amore, lo si cambia con un altro. Costa troppo riparlarlo: troppi soldi, troppa fatica, troppo tempo. Troppo tutto. Sarà per questo che si dice: “Costa meno comprarne uno nuovo”, lo suggeriscono in tanti. L’artigiano, invece, sa riparare: le sedie con una gamba rotta si riparano, i televisori coi fusibili bruciati si sistemano, i calzoni strappati si cuciscono. Le storie d’amore si riprendono in mano. Sarà stato per questo che Giuseppe, sentitosi ferito da quella notizia, «decise di licenziarla in segreto». Pur tradito, guardate, non perdette la sua signorilità: “Torna alla tua casa, Maria. Vattene in silenzio: che nessuno possa offenderti neppure per un istante. Ti vorrò bene comunque”. Furono i giorni del grande-tormento per Giuseppe, i più aspri in quella storia d’amore. La sua afflizione, badate bene, non fu quella di sentirsi il ludibrio di una città puritana, neanche il rancore di chi avverte d’essere tradito, tanto meno lo struggimento di chi vede l’amata del cuore andarsene a braccetto con altri amori. La sua fu una pena che è la somma di tutte le pene possibili: quella di chi s’accorge, scorticandosi la pelle, che la creatura che credeva la migliore di tutte è fallibile anche lei. E’ per questa ragione che Giuseppe è rimasto da solo: solo con tutta quella pena che gli rintrona nel cuore. E tutt’intorno? Gli insulti dei paesani, i pettegolezzi della gente villana: “Guardate l’ingenuo, non è uomo uno che reagisce così. Ha infranto la legge. Guardate tutti che faccia ha l’adultera!” Maria, in parte, stava in attesa di un segno: Dio non mente mai, ella pensava tra sé. E’ una grande prova, ma con l’aiuto di Dio verrà superata. Giuseppe, nel frattempo, paga per Maria: accetta la lapidazione per la salvezza di lei. Era l’ultimo galantuomo rimasto in Giudea: un uomo giusto. Dunque, di notte sogna: «Tutte le cose che abbiamo dimenticato, chiedono aiuto nei nostri sogni» (E. Canneti). L’uomo soffre a causa dei sogni, l’uomo guarisce grazie a dei sogni.ù
Ed eccola, infatti, l’altra annunciazione-sogno, quella meno narrata, la più azzardata. Fossimo onesti, qualcuno dovrebbe un giorno trovare il coraggio di scrivere nella Bibbia di Gerusalemme “L’annunciazione dell’angelo a Giuseppe” invece che lasciare scritto “Giuseppe assume la paternità legale di Gesù”. Questione di giustizia, anche stavolta: Dio non fugge dalle responsabilità che gli competono: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perchè quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,18-25). Un annuncio non meno sconvolgente di quello riservato a Maria: anche lui, Giuseppe, intuisce di essere nel mirino dei sogni di Dio. E lui, nobile, risponde alla maniera di Maria. Lei pronunciò il suo – disse «Eccomi!» (Lc 1,23) – alla proposta recapitatale da Gabriele; Giuseppe, annota Matteo «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 3,45). Praticamente, fecero entrambi la medesima cosa, al punto che verrebbe voglia di duplicare il complimento che Elisabetta riservò alla cugina: «Beata colei che ha creduto!» Anche il contrario è azzeccato: “Beato te Giuseppe, perchè hai creduto”.
Immagino sia stato allora che Giuseppe se la strinse per la prima volta al cuore. Forse sussurrandole, tremando: “Per quanto mi riguarda, rinuncio ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Myriam”. Non me ne voglia Maria: lei rimane la gemma più ambita di tutta l’architettura celeste. Ma io penso che tra i due – tra lo sposo e la sposa – il premio per il maggior-coraggio spetti a Giuseppe: per aver condiviso il progetto di Maria. Nemmeno a lei mancò il coraggio, capite bene. Anche solo pensarlo sarebbe quasi bestemmia: le riuscì di condividere appieno il progetto di Dio. Lei, però, era nata immacolata, Lucifero nulla poteva contro la sua purezza: colui del quale si fidò, era certa fosse l’Iddio in persona. Giuseppe, al contrario di Maria, non nacque immacolato: fu un uomo come me e te, come tutti gli umani che soprav(vivono) sotto il cielo. Lui – questo fu il suo più grande merito – non scommise sull’onnipotenza del Creatore, si giocò tutto puntando sulla fragilità di una creatura. Oppure, per non far torto a nessuno (che nessuno dei due lo meriterebbe affatto) – in tutti-hanno-fatto-tutto, come dice il proverbio: Maria fu donna di fede, Giuseppe uomo di speranza. L’amore, che è il secondo-nome della carità, ha fatto tutto il resto.

«Qualunque cosa tu dica o faccia
c’è un grido dentro:
non è per questo, non è per questo!
E così tutto rimanda
a una segreta domanda…
Nell’imminenza di Dio
la vita fa man bassa
sulle riserve caduche,
mentre ciascuno si afferra
a un suo bene che gli grida: addio!»

(C. Rebora, Sacchi a terra per gli occhi)

Fu solo per interesse che si fece in disparte Giuseppe? Qualcuno se lo potrebbe anche chiedere: in fin dei conti, un uomo può maritare una donna per sistemarsi la vita. Ci sono anche donne che mantengono i mariti. “Chissà cosa avrà guadagnato per ritrarsi dal palcoscenico”. Chi pensa, anche solo per un attimo, che essere stato padre di un Figlio simile abbia portato qualche giovamento materiale all’esistenza di Giuseppe, mostra di non aver letto in vita neanche un rigo dei Vangeli. Se un guadagno lo ebbe, ciò che guadagnò, umanamente parlando, fu una somma di affanni, di fatiche, di persecuzioni, di fame. Fate bene i conti: con la sua sposa non ebbero nemmeno la grazia d’essere poveri ma nel loro paese: dov’erano conosciuti, dove avevano una casa. Niente: per colpa del Figlio, furono costretti a divenire persino profughi: clima diverso, paese diverso, lingua diversa, costumi diversi. Si ritirarono come anacoreti nel deserto per difendere la piccola famiglia da quel bastardo di Erode. In una terra, l’Egitto, che manco li conosceva: una terra che è abituata a provar diffidenza per i profughi e gli sconosciuti. Dall’unione con quel Figlio così strano, i Vangeli parlano chiaro, Giuseppe non ebbe altro. Forse – e qui dovremmo essere sinceri fino all’osso – non gli importava nemmeno di avere dell’altro: poiché tendeva a Gesù solo, tutto questo si cambiò in spirituale pace, in sovrumana letizia. Dice la Vergine: «Vorrei portarvi al punto in cui era lo sposo mio quando diceva: “Anche se non dovessimo avere più niente, avremmo sempre tutto, perchè abbiamo Gesù» (M. Valtorta). Giuseppe, dunque, è colui-che-aggiunge: aggiunse la speranza alla fede di Maria, la paternità-seconda al Dio Bambino. Sposo-secondo, padre-secondo: fu il secondo delle due creature più celebri che il Cielo partorì.
Ci sono dei secondi-posti che valgono oro: fu il primo di tutti gli uomini.

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L’uomo di casa-e-bottega. Il datore di lavoro di Cristo

Eppure nessuno immaginerebbe la missione più delicata che toccò in sorte a Giuseppe. Non tanto il cercare di capire la sua storia d’amore con Maria: anche quella. L’impresa vera che toccò al carpentiere di Nazareth fu quella di riuscire ad essere padre. Il diventare padre, voi me lo insegnate, non è difficile: essere padre, questa è la cosa difficile. E’, forse, per questo che un cuore di padre è un capolavoro della natura: «Colui che genera un figlio non è ancora un padre – scrive Dostoevskj ne I fratelli Karamazov -, un padre è colui che genera un figlio e si rende degno». Giuseppe ci riuscì, facendo del Cristo un eccellente operaio: mica una faccenda da poco. Attese l’età giusta in cui il Figlio poteva maneggiare gli arnesi e fece di tutto per non lasciarlo poltrire nell’ozio: che facesse oggetti utili per la mamma, per il papà, per se medesimo. Dal padre-secondo, Iddio imparò tutto quanto fa del bambino un uomo. Imparò la regola prima della sopravvivenza, che è anche la condizione prima della dignità: quella secondo la quale un uomo si deve guadagnare il pane. Mi torna alla mente una bellissima frase letta dal figlio al funerale di suo padre: “Mio padre – diceva quel ragazzo – non mi ha mai detto come dovevo vivere. Lui viveva e lasciava che io lo guardassi vivere. Guardandolo, mi sono accorto che stavo diventando uomo. Grazie, papà”. All’Onnipotente, Giuseppe insegnò le nozioni elementari della vita, la grammatica di base per diventare un giorno un uomo felice. Maria Valtorta, a proposito del lavorare di Gesù, mette sulla sua bocca queste delicate parole di gratitudine: «Le care ore passate a fianco di Giuseppe, che come per un gioco mi condusse ad essere capace di lavorare, Io non le dimentico neppure ora che sono in Cielo. E quando guardo al padre mio putativo, rivedo il piccolo orto e il laboratorio fumoso, e mi pare di vedere affacciarsi la Mamma col suo sorriso, che faceva d’oro il luogo e beati noi (due)» (M. Valtorta). A Nazareth, da Giuseppe Gesù impara quello che egli stesso trasmetterà ai suoi discepoli-operai: che nessuno ha il diritto di comandare se prima non avrà imparato ad obbedire. Che nessuno dev’essere generale di armata se prima non avrà prestato servizio nei ranghi.

Il trucco di immaginarselo nato-vecchio

Quello di ritrarlo vecchio – col giglio in mano, la canizie nei capelli, smunto nell’età che avanza – è, dunque, tutto un trucco. Un trucco disonesto, partorito più per incapacità di reggere quella storia che per una sorta di affetto ch’è tipico dell’età della vecchiaia. Il motivo è un altro: per noi pare tanto scomodo pensare che Giuseppe sia stato giovane. Un amante tutto d’un pezzo, innamorato pazzo del suo lavoro al punto da proporlo addirittura a Dio. Di Maria, al punto tale da pagarle il conto: «Adultera Mirìam? Ve la do io l’adultera, confermo e riconfermo le mie nozze, e guai a chi la sfiora col sospetto» (E. De Luca) Un sognatore coi piedi piantati a terra. Infastidisce troppo quest’uomo: è uno schiaffo all’ozio, una sorta di beffa alle nostre scuse-d’amore, uno di quegli uomini che si vorrebbe non fossero mai nati. Siccome sono nati, allora meglio ficcarli dentro i capitelli delle chiese: poi un giorno all’anno li portiamo a spasso per il paese. Così: tanto per fargli prendere aria. Invece, signori/e, Giuseppe era poco più che trentenne quando il Cielo gli piombò addosso, con l’aggravante che non aveva fatto nulla per cercarsele.
A quel punto, scelse d’accettare la carriera che gli venne proposta: aiutare Iddio a inserirsi-bene dentro il paese di Betlemme. Dentro l’umanità. A Myriam il compito di tenere i contatti col Cielo, a Iosèf di tenere i contatti con la terra degli uomini. Ad entrambi il folle compito di aiutare Iddio nel farsi uomo. Nessuno dei due Gli nascose la miseria della storia: uomo tra gli uomini, cittadino del mondo, soggetto alle leggi dello stato e a quelle del Cielo. Siccome mostrarono di non volergli affatto nascondere la miseria,Lui si fidò di loro: per sei lustri fece vita comune con loro a Nazareth, tra casa e bottega. Poi, un giorno, il Figlio saluterà tutti e come tutti i figli andrà dritto per la sua strada. E Giuseppe tornerà a sprofondare nei suoi mille interrogativi di padre: “Che padre potrà essere stato uno come me, Maria? Sono stato un padre zimbello. Non ha avuto un padre, ha avuto un pupazzo”. Maria – dando retta alla splendida reinterpretazione fatta da Erri De Luca – me l’immagino china su di lui, a cercare di rasserenare Iosèf: «Ti amava, Iosèf, ammirava la tua misura di stare nella vita come uno che chiede permesso ogni giorno». Non per nulla è il patrono di tutti i papà.
«Io non ricordo di aver mai domandato una grazia a san Giuseppe che non me l’abbia accordata – scrive santa Teresa -. Che bel quadro io metteri sotto gli occhi se mi fosse dato di esporre le grazie segnalate con le quali sono stata ricolma da Dio e i pericoli di anima e di corpo da cui son ostata liberata mediante l’intercessione di questo gran santo! Agli altri santi Dio concede di soccorrerci soltanto nel tale o nel talaltro bisogno, ma il glorioso san Giuseppe, ed io lo so per esperienza, stende il suo potere a tutto. Ciò hanno sperimentato al pari di me altre persone, alle quali io avevo consigliato di raccomandarsi a questo incomparabile protettore. Da alcuni anni, nel suo giorno, gli chiedo qualche grazia e sempre la vedo adempita». D’altra parte, non c’è nessun santo che possa dire a Gesù: “Ti ho dato da mangiare col sudore della mia fronte, ti ho procurato il vitto e l’alloggio, il vestito, ti ho dato da bere. Ti ho assunto nella mia bottega”. Nessuno può permettersi di dire al Cristo: “Ti ho educato, portato in braccio, sono scappato con te in Egitto. Sono stato il tuo custode, ti ho fatto da-padre”. Ecco perchè santa Teresa ha scritto quel bel pensiero: siccome Gesù non può negare tutto quello che Giuseppe ha fatto per lui, non è capace di negare nulla di tutto ciò che Giuseppe gli chiede. Usate la proprietà transitiva: potrebbe, Maria, negare qualcosa che gli chiede il suo sposo, dopo quello che ha fatto per/con lei? Può, forse, Gesù negare quanto gli chiede sua Madre?
Capite, allora, perchè san Giuseppe è uno dei santi più inflazionati della storia? Praticamente lo si invoca per tutto, per tutti: per l’infanzia, gli orfani, i vergini, la gioventù, le vocazioni sacerdotali, le famiglie, i profughi, gli esiliati. Gli operai, in primis ovviamente i falegnami e gli artigiani. Si ricorre a lui per le malattie degli occhi, per gli ammalati gravi, per i moribondi. Se non corresse il rischio di sembrare offesa, si potrebbe dire che Giuseppe è il jolly per tutte le occasioni. D’altra parte, capite bene, i primi devoti di san Giuseppe furono Gesù e Maria, che bussarono alla sua porta-di-bottega nei giorni di travaglio e difficoltà. Ora, pensate bene: c’è qualcuno al quale non verrebbe voglia di essere devoto di un santo di cui furono devoti Gesù e Maria?

 

***


Lettera ad un padre che non è mai stato

Papà, ti scrivo questa lettera senza sapere se sei vivo o morto. O meglio: so che sei ancora vivo, ma forse dentro di me vorrei che tu fossi morto, così potrei definitivamente seppellirti sotto tonnellate di terra e non pensarti più. Perchè, nonostante tutto, ancora ti penso, mentre tu non mi pensi più: questo mi fa incazzare da morire. Fosse anche solo per questo, non meriteresti più nemmeno i miei pensieri. Davvero.
Hai mai avuto sensi di colpa, papà? Anche solo per un attimo, anche solo per un secondo, li hai mai avuti? Magari nel buio della notte, ripensando a come hai lasciato sola una donna con tre bambini piccoli, buttandola nel mondo senza salvagente, fregandotene altamente di tutti i suoi sogni infranti? Mia madre è una rompicoglioni di proporzioni storiche, te ne dò atto: ma te la sei sposata e di qualcosa devi esserti innamorato. Sì, è una rompicoglioni da primato, ma è anche una donna che sa darti tutta se stessa, come ha dato a noi in questi anni in cui non ci sei stato tu. Perchè, sai, se aspettavamo te, stavamo freschi.
Tu: l’uomo che da piccola mi parlava di libertà e mi mollava a 13 anni da sola al mare, o in un parco di Roma, senza riferimenti, e io a fine serata in mezzo alla strada da sola ad aspettare che mi venissi a raccattare non appena ti fossi ricordato di me. Tu: che da piccola mi dicevi che non ti importava che ti odiavo, perchè l’odio in fin dei conti è un sentimento come l’amore, e lo dicevi ridendo, quella stessa risata odiosa che vedo ancora di notte, quando mi sogno di vomitarti addosso tutto quello che penso di te, con quella rabbia e quel veleno che mi fa sussultare e tu invece di implorare perdono, ridi, e mi fai incazzare ancora di più. Tu: che da piccola non ci sei mai stato, come non ci sei stato mai in nessun momento della mia vita. Tu: che hai avuto il coraggio di accusare mia madre di fare-figli-come-conigli, quando lei almeno si è fermata a tre, e tu invece ne hai fatti altri due.
Ti odio con tutta me stessa, odio ancora di più il fatto che ti odio ancora, nonostante il bastardo che sei. In fondo hai ragione: l’odio è come l’amore, è un sentimento, che comunque c’è e fa male. La mia grande conquista sarebbe poterti finalmente ignorare, sapere che davvero non sei nulla per me, perchè nulla sei sempre stato, a parte il mio padre biologico.
Ma dentro di me so che non potrò mai farlo. Perchè io non ti odio per quello che hai fatto a me, o almeno quello è solo una minuscola parte dell’odio che ho per te. Perchè alla fine a me è mancato un padre, non tu. Mi è mancata una figura paterna, ma non certo tu. Anzi, a volte ringrazio di essere cresciuta senza di te. Io ti odio, ti odierò sempre per quello che hai fatto a mia madre: bastava essere sincero, dirle che non l’amavi più, che avevi trovato un’altra e che ti volevi rifare la vita con lei. Bastava essere chiaro, andare da un giudice e stabilire tempi di visita, assegni di mantenimento.
Bastava essere un uomo: quello che non sei mai stato.

 


(*) Testo della meditazione tenuta da don Marco Pozza a Cogollo del Cengio (VI) nel percorso dell’Avvento 2016 dal titolo La scomodità di Dio.

 

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