Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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La liturgia di questa terza domenica di Pasqua ci fa soffermare lungamente (sia tramite gli Atti, nella prima lettura, che tramite la lettera ai Romani) sulla figura di san Paolo, testimone – per antonomasia – del Risorto.
Paolo è innanzitutto un membro del popolo d’Israele, cui si rivolgono le parole d’Isaia:
«Ha detto bene lo Spirito Santo, per mezzo del profeta Isaia, ai vostri padri: / “Va’ da questo popolo e di’: / Udrete, sì, ma non comprenderete; / guarderete, sì, ma non vedrete. / Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, / sono diventati duri di orecchi / e hanno chiuso gli occhi, / perché non vedano con gli occhi, / non ascoltino con gli orecchi / e non comprendano con il cuore / e non si convertano, e io li guarisca!»
Non è senza dolore che Paolo, facendo parte d’Israele, si approccia alle parole del Profeta. È dal proprio popolo che Paolo inizia la predicazione: solo dopo, diventerà l’ “apostolo delle Genti”. È naturale che sia rattristato di fronte al rifiuto che riceve. Di fronte alla proposta di Cristo, unico Nome che porti a salvezza, gli ebrei di Gerusalemme oppongono il proprio rifiuto.
Eppure, è inevitabile. Un ostacolo non aggirabile. Cristo, nell’economia della storia della salvezza, rappresenta una sorta di cesura. Dopo Cristo, nulla può essere uguale a prima. Cristo esige la radicalità di una scelta.
Difficile parlare in questi termini, specie oggi, un tempo in cui la raccomandazione-principe è mediare, parlamentare. Come ai tempi della pirateria.
Con Cristo, non è possibile usare le mezze misure. Non possiamo credere ‘a metà’. Perché la fede richiesta è in un Uomo, che è stato a morte perché bestemmiava, definendosi Figlio di Dio, e che dopo tre giorni è risorto. Non ci è data possibilità di via di mezzo. O quell’Uomo, come diceva d’essere, era Dio sceso in terra. Oppure era un pazzo bestemmiatore, un millantatore di folle e un sovversivo. Tertium non datur.
San Paolo scrive alla comunità dei Romani, che non è stata fondata da lui e che quindi conosce – possiamo dire così – per fama: dopo essersi rammaricato di non essere ancora riuscito a raggiungerla, dice, infatti «rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché della vostra fede si parla nel mondo intero.» (Rm 1,8). È bello questo rendimento di grazie, fa riflettere. Non è scontato ricevere una testimonianza di fede, tant’è vero che, quando una parrocchia riceve il dono di un sacerdote fedele dispensatore dei doni di Dio, sorge spontanea la gratitudine per quello che si percepisce come un aiuto per camminare con più determinazione lungo le strade tracciate dalla Parola. È bello, forse ancora di più – proprio in quanto ancora meno scontato – quando un sacerdote si rende conto di aver ricevuto una testimonianza di fede che lo ha reso più forte da una comunità. Quando si avverte la consapevolezza di vivere gratitudine nei riguardi dei confratelli, si percepisce più chiaramente perché Cristo richieda ed esiga la fragile bellezza della Chiesa, alle cui mani si affida da mille anni. Vilipeso, tradito, oltraggiato, incompreso, frainteso, sminuito. Eppure, ogni giorno, è su questi altari che si fa presente. Di fronte ad un uditorio spesso distratto, per mano di sacerdoti non esenti da dubbi e perplessità, difetti, mancanze ed ombre. Tradito dagli amici, condannato a morte dal sinedrio. Ancora oggi, abbandonato ove più ha bisogno di non essere lasciato solo.
Eppure, forse, proprio in questi momenti, si fa più chiara la consapevolezza che non esiste Cristo, senza la Sua Chiesa. È insieme che siamo chiamati a camminare, verso di Lui, facendoci aiuto gli uni per gli altri. Perché nessuno rimanga indietro, ma tutti possano volgere lo sguardo a Colui che è stato trafitto.

Nel Vangelo di Giovanni (Gv 8,12-19), Gesù si rifà a quello che era la legge ebraica. Perché uan testimonianza fosse valida, erano necessari due uomini che pronunciassero la stessa cosa. Per chi è stato attento durante il triduo, questo è stato proprio il problema che si presentò innanzi, al momento della condanna di Gesù: non riuscirono a trovarne alcuna,pur essendosi fatti avanti molti falsi testimoni.(Mt 26.60). È impreciso dire che non si trovasse una testimonianza contro di lui; c’erano diversi falsi testimoni, infatti. Il vero problema fu trovare due testimonianze concordi perché i numerosi falsi testimoni non si erano accordati in precedenza e, quindi, conferivano fatti differenti, rendendo – in tal modo – le loro testimonianze inutilizzabili, ai fini dell’accusa nei confronti di Gesù.
Nel brano evangelico proposto, l’accenno alla Santissima Trinità è richiamo a quella comunione d’amore che fa sì che la testimonianza che Cristo dà di se stesso non sia una voce isolata. Dal Padre viene e, come scia, lascia in eredità lo Spirito Santo, con il compito di ricordare (cioè ri-portare al cuore) le parole di Dio che ci hanno scaldato il cuore, ma che hanno bisogno di diventare carne e sangue nella quotidianità per diventare Vangelo vissuto e non solo ascoltato.
Come san Tommaso, anche noi cerchiamo garanzie sull’autenticità delle parole del Cristo, che dice di sé di essere Luce, per il mondo. Eppure, noi fatichiamo a vedere la Sua fiamma. Il Male che ci circonda da ogni lato ci fa pensare che la forza di Dio risulti sconfitta, impotente di fronte al suo dilagare senza posa. Bullismo, mancanza di valori, incapacità di vedere la ricchezza della vita altrui, noia… questo ci raccontano i notiziari.
Eppure, la fiamma arde ancora.
È una madre, che si alza, nel cuore della notte, a rincuorare il frutto del proprio grembo. È una coppia che, in barba ai giudizi e alle statistiche, accetta la sfida di mettere al mondo una nuova vita. È un malato che, nonostante la propria sofferenza – o, piuttosto, tramite essa – riesce ad essere testimone di un Crocifisso che risorge. È un padre che è disposto a rinunciare alla “carriera” pur di realizzare la propria vocazione matrimoniale e dedicare alla propria famiglia quel tempo di cui ha bisogno.
C’è un fascino, suadente, del male che suona la tromba davanti a sé. Il bene, invece, ha spesso un fascino discreto, modesto, privo di ambizione: offre tutto, anche quando è poco, come la vedova che getta due spiccioli nel tesoro del tempio (Mc 12,38-44): ma quel poco, a volte, è tutto. E quella fiamma, quando accesa alla sorgente di Cristo, continua ad ardere, anche se intorno, le tenebre, nel tentativo di sopraffarla. Ma non prevarranno.
“Io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33): è l’unica garanzia che ci fornisce il Risorto, al di là di ogni apparenza di sconfitta.

 

Rif: Letture festive ambrosiane, nella III Domenica di Pasqua (At 28,16-28; Sal 96; Rm 1,1-1-16b; Gv 8,12-19)


Fonte: don Raffaello Ciccone, Parole Nuove
Fonte immagine: Pixabay

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