Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Ormoni e via-crucis

L’inizio del vangelo di Matteo è di una noia spaventosa. Quando, a noi preti, ci tocca l’onere di leggerlo – minimo due volte all’anno, in una domenica d’avvento e in una festa dedicata a Maria – facciamo in modo di leggerlo il più velocemente possibile, rendendolo quasi incomprensibile ai fedeli. Ci pare, a noi preti, che sia un esercizio di lettura senza significato, un arido elenco di nomi sui quali è difficile costruire una predica ad effetto, di quelle che smuovano le viscere (e le monetine) delle nostre nonne. Oppure ne tagliamo alcuni pezzi, abbreviandolo. Sembra di essere in una sala d’attesa per entrare dal dentista: più le riviste sono noiose e più ti pare di dover aspettare che arrivi il tuo turno. «Abramo generò Isacco (…) Davide generò Salomone (…) Ieconia generò Salatiel». Mt 1,1-17). Per ventuno volte di seguito, l’evangelista Matteo prova piacere nello scattare una foto sotto-le-coperte: prende per il bavero gli ormoni maschili e li scaraventa lassù, dritti all’inizio della storia. Son quarantadue pezzi d’uomo – moltiplicati, ovviamente, per altrettante donne – tutti impegnati nella medesima faccenda: fanno l’amore, danno alla luce. I loro nomi, quando il prete li nomina in chiesa, sono come i colpi di sonaglio col quale i lebbrosi mettono sull’attenti la gente. “Ma che c’entra tutta questa roba?” Hanno ragione i lettori-ascoltatori: che c’importa se questi uomini hanno fatto l’amore con quella, con quell’altra, con un’altra: se fanno figli, sono affari loro, basta che li mantengano. Anche perchè, onestamente, i più, tra tutti questi, nel Vangelo resistono appena il tempo d’inseminare: poi, come fossero degli ubriachi-fradici, piombano a terra, finendo dritti nell’anonimato più oscuro.
Poi, però, pensi che questa è una sorta di genealogia, cioè il racconto di tutta una storia. A me, tra l’altro, piaceva tantissimo quando a scuola la maestra mi faceva fare l’albero genealogico della mia famiglia: mi piaceva, in quelle ramificazioni pazzesche, vedere da dove arrivavo, con chi aveva fatto l’amore la mia trisavola per dare la vita alla mia bisnonna. Poi alla nonna, alla mamma, a me: ricordo una volta di essere arrivato, a ritroso, fin quasi al ‘700! Mentre guardavo quelle pagine di quaderno piene-zeppe di nomi, mi sentivo un re. Poi, tra l’altro, pensi che questa pagina è anche un pezzo di Vangelo: ti hanno detto che è la storia che vuol diventare la mamma di tutte le altre storie – con buona pace di Omero e della sua Odissea (anche lui, e i suoi fans, hanno la stessa pretesa) – e allora le concedi un’altra chance: “Aspettiamo un attimo prima di stracciarla: vediamo chi sono. Chissà che non abbiano nascosto sorprese”.
Ottimo. Stavolta – se prima cadevano gli ubriachi – adesso casca anche l’asino. Fermati a Giacobbe: lui l’eredità della stirpe non la affida a Ruben (che era il primogenito), nemmeno a Giuseppe (che era il più amato, il più giovane, colui che aveva perdonato i fratelli, salvandoli dalla fame dell’Egitto) ma a Giuda che aveva venduto Giuseppe ai mercanti. Quando entra Ozia, è da mettersi le mani nei capelli a leggere di cosa fu capace: d’incesto. Sul capo di Joatam, invece, pende come una spada di Damocle l’accusa di omicidio: materia solida di follia. Avete sentito quanti nomi! Bene: prima dell’esilio solo Ezechia e Giosia si salvano: tutti gli altri o sono stati immorali, oppure assassini o, nel migliore dei casi, idolatri. Dopo l’esilio, solo Salatiel e Zorobabele si salvano: tutto il resto è peccato, anonimato. Risparmiamoci Davide: un misto-mare di fedeltà a Dio, di delitti, di peccati di ogni sorta. Ricordiamocelo come il grande-Re: «Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia; nella tua grande bontà cancella il mio peccato. Lavami da tutte le mie colpe, mondami dal mio peccato. Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 50,3-5). “Sono uomini, questi! Vedrai che trovano una donna e mettono la testa a posto” – penserete.
In mezzo a quel turbine di ormoni – visto che la natura chiede un uomo e una donna per fare-figli -, ci sono anche cinque donne, nomi e cognomi. Donne sante, penserete. La prima si chiama Tamar: un giorno si vestì da prostituta per offrirsi all’uomo desiderato. La seconda, che era di Gerico, si chiama Rahav: lei, invece, era prostituta di mestiere e tradì niente meno che il suo popolo. La terza si chiama Rut: una bella notte si infilò sotto le coperte di un ricco-sfondato, si fece maritare. La quarta – il nome è bellissimo: Betsabea – batte tutte le altre dieci-a-zero: adultera, tradì il marito che venne fatto uccidere dal suo amante. Il nome dell’amante merita una menzione: si chiama Davide, basta così. L’ultima, la quinta, restò incinta prima delle nozze. Piccolo problema: il figlio in grembo non era dello sposo. Pagina numero-uno dell’intera cristianità. Lascio la parola alla misericordia di un poeta come Charles Péguy: «Bisogna riconoscerlo, la genealogia carnale di Gesù è spaventosa. Pochi uomini hanno forse avuto tanti antenati criminali, e così criminali. Particolarmente così carnalmente criminali. E’ in parte ciò che da al mistero dell’Incarnazione tutto il suo valore, tutta la sua profondità, un arretramento spaventoso. Tutto il uso impeto, tutto il suo carico di umanità. Di carnale. Quantomeno per una parte, e per una gran parte»
Riprendi, adesso, tutta la storia dall’inizio: è ancora noiosa, ti chiedo?
Certo, si è costretti a procedere come su una strada interrotta: a zig-zag, tra altari spenti, petti di pietra-convertiti. Fino a piombare, come attraverso una finestra rotta, dentro casa dell’unico uomo rimasto vergine: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». All’unico che Matteo non pizzica nell’atto di fecondare, il Cielo fa piombare in testa la paternità più strana mai capitata prima: padre-secondo del più piccolo latitante-meticcio della storia umana. Portate pazienza se costui – discendente di una casato così – metterà mano alla storia e farà germogliare la Bellezza.
Capite, allora, perché questa pagina fa sempre una brutta fine in chiesa: i preti la tagliano, i fedeli le sbadigliano in faccia. Perché quando un popolo vuole scrivere la sua storia ufficiale, storia-di-regime, parlerà delle sue vittorie, della sua grandezza, dei suoi eroi e delle sue eroine. Cristo, invece, quando inizia a scrivere la sua storia mette come punto di partenza tutti i peccati di casa sua: è un esempio mirabile e stupendo, unico. Poi, dopo averlo fatto, un giorno lo dirà pure: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 5,16) Così, tanto per non dimenticare da dove siamo partiti tutti: «Ti ho amato di amore eterno» (Ger 31,3) dice Dio al profeta Geremia. Per non correre il rischio di montarci la testa oltre-misura: «Egli solleva l’indigente dalla polvere, dall’immondizia rialza il povero, per farlo sedere tra i principi, i principi del suo popolo» (Sal 113,7-8).
Quando sono triste – per i miei peccati, perché sono debole, perché certe sere sbaglio strada per tornare a casa da Lui – prima di dormire mi rileggo tutta questa pagina. Ve lo confesso: questa lista di nomi di criminali, di puttane e di tradimenti che Matteo mette all’inizio della sua storia di Cristo mi ricorda quanto è grande la misericordia di Dio: non c’è peccato che riesca ad arrestare la fantasia della sua Grazia. A questa lista, dimenticavo, aggiungete poi quelli che arriveranno dopo: Paolo, il persecutore, e Pietro, il traditore. Ecco perché a Natale, la fede che più mi piace è la speranza. Al Cielo non importa affatto se la strada è popolata da battone, incestuosi, e gente libidinosa: «La terra promessa va conquistata, bonificata dagli idoli» (E. de Luca).
Questo è il Cristo di Matteo: troppo scomodo far nascere la Bellezza così.

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Tre righe. Meglio non aggiungere altro

Luca, invece, è un pittore. Concedetegli lo sfizio di fare bella mostra della sua abilità quando descrive l’Annunciazione a Miriam. Poi, però, rimettetevi in sesto subito: anche per lui la storia della scrittura sacra – che è la storia della bellezza – si compie in mezzo al sangue e alla miseria, non certamente dentro la quiete di un convento. E’ un percorso tra scorie e purificazioni, cadute e rinascite. Luca racconta così quella strana faccenda: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce, lo depose in una mangiatoia, perchè non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). Tre righe in tutto: per chi ha mira basta un colpo solo. Tre righe per l’avvenimento più straordinario della storia del mondo: chissà quanto deve aver lottato con la penna per resistere alla lusinga di dire di più. Tre righe in cima alla pagina: poi ha lasciato il foglio bianco e noi, che quelle tre-righe spaventano assai, lo abbiamo riempito di poesia. Come se Cristo, nella pienezza del tempo, fosse nato nel presepio delle educande dove, ancor oggi, dopo millenni di smentite, i colori son rimasti graziosi, la mangiatoia é una tavola imbandita, la capanna un monolocale con angolo cottura, portici di latta, capitelli di marzapane. Nulla di tutto ciò, invece: fu semplicemente sterco quello sul quale poggiò il capo Dio. La grotta non è nemmeno di quelle rupestri, è per animali: stamberghe di bestie che la natura ha fatto venire al mondo per servire l’uomo. Luca, dunque, mette subito le cosa in chiaro fin dall’inizio, che nessun cristiano si monti-la-testa: la via che porta a Betlemme – la casa del pane, la casa di Cristo che si farà pane – è già una via crucis.
Un giorno, diventato grande, dirà: “Picchiate forte, vi apriranno”. Per la sua madre, però, che lo portava in grembo, le porte sono rimaste sbarrate e l’uomo è rimasto dietro, deciso a non cedere una spanna di pavimento. Più che le carte in regola, Giuseppe e Maria non avevano il portafoglio in regola, ragione per cui gli usci se ne stettero chiusi: «Anche se può pagare, un povero – scriveva ne Il compagno Cristo don Mazzolari – sa purtroppo che tanto gli sportelli degli uffici come gli usci, si chiudono sempre sgarbatamente, come sempre a malincuore si aprono per lui». Giuseppe non impreca, Maria non si lamenta: sono abituati ai rifiuti. Vanno fuori Betlemme, in aperta campagna, per vedere se tra i poveri c’è più buon cuore. In campagna c’è sempre una stalla per i senza tetto, un po’ di paglia per l’uomo di passaggio. C’erano degli animali quella sera, almeno un bue e un asino: un padrone, dunque ci doveva essere, ma nessun cenno dentro il Vangelo del padrone: non pensa alla gloria che gli potrebbe derivare. Egli è l’anonimo che dà, lo sconosciuto che offre: il milite ignoto, il Cireneo, l’uomo della strada che butta il cuore a quel Dio-in-borghese. Maria, Giuseppe entrano nella stalla, come nella più bella camera d’albergo, con vista-Betlemme. Poi, a notte fonda, arriva anche Gesù: «Diede alla luce il suo figlio primogenito». Ciò che s’annuncia in quell’attimo è che è nata una nuova grandezza: batterà strade ignote a tutti gli altri. Guarderà il mondo dal basso, dai pertugi della miseria.
Dio ricomincia da Betlemme, da un Bambino. E’ un Dio che non si impone, che ha bisogno: l’immensità va a confinarsi dentro un frammento di terra, dentro un pezzo di carne. Nasce in una stalla anche se noi – la stalla è un po’ scomoda come prospettiva-di-vita -, l’addobbiamo di palloncini, stelle cadenti, marzapane. Dal momento in cui decide di nascere in una stalla, la stalla diventa la prima chiesa, la greppia è il primo tabernacolo. Prima ancora della casa di Nazareth, prima ancora delle catacombe, delle basiliche: sembra proprio che non ci sia nulla di indegno per Cristo, eccetto il male. Ogni cosa, sembra voler dire questa strana storia, d’ora innanzi potrà diventare un ostensorio. Quando Francesco d’Assisi volle ridare, in un tempo sfarzoso, Cristo ai poveri, diede appuntamento in una stalla di Greccio, non nel Duomo di Assisi. Una stalla, come un’officina, può diventare l’anticamera del Paradiso. E dentro questa stalla, Gesù Cristo – sentite cosa scrive Paolo – «ha fatto risplendere la vita» (2Tm 1,10): ha riacceso la fiamma delle cose, ha intonato canzoni bellissime al cuore, ha incastonato frammenti di stelle nel nostro sangue, scritto parole nuove dentro le strade del mondo. Materia da mettere sotto-sopra l’universo intero! Invece, fate bene attenzione: quando Gesù nasce, gli Angeli cantano in Cielo, Maria e Giuseppe l’adorano in terra. Non c’è nessuno che parli: solamente un gioco di sguardi. Maria guarda e tace, custodisce nel suo cuore. I pastori giungeranno dopo, i Magi dopo ancora: c’è un momento, ed è questo, nel quale l’uomo è assente. «Capisce così poco, l’uomo!» (P. Mazzolari). Il posto è tenuto occupato dal bue e dall’asino: non vi fa strano pensare che le bestie abbiano adorato Cristo prima di noi? La domenica in cui abbiamo chiuso la Porta della Misericordia in carcere, il mio amico don Roberto, per spiegare che cos’è misericordia, ha avuto un’intuizione da mandare il cuore fuori-giri: “Avete sbagliato voi? Pagherò io!”. Dentro quella grotta, la prima volta che è risuonato quell’annuncio, nessuno si è fatto trovare pronto a raccoglierlo. Eppure si annunciava che i nostri debiti, quelli che ci toglievano il sonno la notte, se li sarebbe accollati tutti lui: per farci dormire dei sonni tranquilli. «Capisce così poco, l’uomo!»
Noi non siamo villani, però, come la gente di Betlemme quella notte. Vero: non siamo come loro, siamo dei villani-intelligenti. Non lo lasciamo fuori, però il pericolo lo subodoriamo, capiamo che dobbiamo difenderci da lui. Lui è venuto a portare la luce: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce. Su coloro che abitavano in una terra caliginosa di ombre di morte risplendette una luce» (Is 9,1). Siccome la luce-fa-luce – altrimenti che luce sarebbe! – è una luce scomoda: di quella che fruga in tutti gli angoli, che accende i riflettori sulle nostre miserie, che negli armadi smaschera gli scheletri. Non è un’abat-jour di ornamento, insomma, è una luce spietata: «La luce splende nelle tenebre ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5). Così spietata che noi – non l’abbiamo lasciata fuori al freddo, siamo educati noi, ndr – la oscuriamo con le stelle filanti, i palloncini colorati, coprendoci gli occhi con i pugni come fanno i bambini: ecco come noi abbiamo ucciso il Natale. Ecco perchè, ancora una volta, il pensiero va a don Primo Mazzolari: «Incomincio a capire che vi possa essere gente, cui torni piacevole che Gesù sia un fantasma. E’ l’unico personaggio della storia che si vorrebbe non fosse esistito. E non per gusto di sapere esatto o di documentata certezza, ma per un segreto inconfessato desiderio di non ritrovarselo vicino, neanche sulla strada del passato. Gli altri uomini, grandi o infami, sono memoria e polvere: Cristo, no, è presenza. Comincia a diventare interessante uno che gli uomini vorrebbero che non fosse. Non può essere uno qualunque, se Lui o qualcosa di Lui è così vivo e inquietante da desiderare che non fosse» (Il compagno Cristo) Ci ha fatto un dono – e che dono: si è fatto uomo perchè l’uomo potesse, un giorno, diventare Dio – e noi abbiamo fatto finta di non accorgerci di quel dono, tutti presi come siamo in questi giorni a scartocciare i nostri piccoli doni. Cristo l’abbiamo bloccato con le belle maniere, mica siamo stati villani come quelli di Betlemme. Ci mancherebbe altro!
Tre righe ha scritto Luca: chissà che fatica a non aggiungere altre. Tre righe per raccontarci la tristezza del Natale: l’esserci perduti l’appuntamento con la bellezza, avere il rimorso, anche quest’anno, d’averlo gustato di distrazione.

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Capita sempre così

Succede sempre così: quando Dio decide di fare certe manovre – il Natale è una di queste – non sono frutto d’improvvisazione, ma di una preparazione a dir poco chirurgica. Nessun popolo è mai stato avvisato come quello ebreo! Dio spiana il terreno con anni e, a volte, secoli di anticipo. Il problema, dunque, non è mai la resistenza di Dio: Dio chiama molto tempo prima che le sue creature siano disposte ad ascoltarlo: «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo» (Eb 1,1-2). In effetti “amare” è un gioco, dolce e crudele, in cui si alternano vicinanza e lontananza. D’altronde i più grandi amori si temprano sempre con la distanza. Spesso penso che Dio ci lasci soli per temprare il nostro amore nei suoi confronti. Il fatto-serio è, piuttosto, che l’uomo si nega a scoprirlo: la verità dell’amore è sempre una strada poco battuta. Poi, però, arriva e stupisce per il modo: bambino, senza-tetto, scomodo. «Là egli visse trent’anni – non già in un silenzio di adorazione e di amore: dimorava nel bel mezzo di una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli drammi d’una numerosa parentela» (F. Mauriac). Di più: nascendo a Betlemme, si inginocchia. Lui il mondo ha deciso di volerlo guardare dal basso: il mondo non è mai lo stesso se lo si guarda nell’ottica dei conquistatori o dei conquistati, dei vincitori o dei vinti. Ancor oggi nessuno sospetta che la bellezza, la libertà possano nascondersi dentro degli stracci, nel cuore stesso della miseria.
«Per andare a Lui non occorre che vi vestiate a festa, né che vi facciate il segno della croce, se non ne avete voglia, quantunque un povero corpo come il vostro – che, da quando è nato, non fa che portare croci – non ci perde se si indica con una croce. Egli viene dove volete, dove vi piace, avendo preso dimora con voi: in casa vostra, nella fabbrica, all’osteria, in piazza. Ovunque andiate, Egli vi segue: vi ha anzi preceduto. Egli occupa ogni cosa nostra, e ogni nostra abitazione, da quando si è fatto uomo per stare con noi.
Nè occorre v’inginocchiate. Continuate pure a lavorare: finite in pace il vostro bicchiere di vino. Non vi guarda male, perchè bevete un bicchiere. Era amico anche di quei che bevevano: e i morigerati, coloro che non si ubriacano, perchè bevono quanto vogliono tutti i giorni, dicevano, intendendo togliergli il credito, che Gesù era amico degli ubbriaconi e della gente di malaffare. Se siete seduti, vi siede accanto: se camminate, è pellegrino: se lavorate, operaio: se piangete, lo vedete piangere. «Son beati gli occhi che piangono» (P. Mazzolari).
Insomma, in terra non mancherebbero le occasioni di meravigliarsi:manca chi si meraviglia.

 

***

(Alessio, 53 anni, carcerato) «Sono qui per farti gli auguri per questo Natale che sta arrivando: quanti ricordi mi portano questi giorni di festa. Vorrei ritrovare quel sonno di quando ero un bambino piccolo: nella notte di Natale neppure i cannoni riuscivano a svegliarmi. Mia mamma mi diceva sempre che quella notte era vietato aprire gli occhi, anche solo per sbaglio, perchè Babbo Natale, nel timore di essere visto, sarebbe volato sopra i tetti di casa senza portare i doni, quelli che aspettavo con ansia da un anno. Così sprofondavo nel sonno, lasciando, ignaro, che mio padre montasse nella notte in camera mia i binari del trenino elettrico senza che neppure me ne accorgessi.
Non mi crederai, vedendo che non sono più bambino (oggi potrei essere quasi tuo padre), ma vorrei ritrovare ancora, qui dietro le sbarre, quei sapori di Natale. Da piccolo impazzivo per l’insalata russa: era un piatto per i ricchi e ricordo che, a casa nostra, si comprava solo una volta all’anno al supermercato. Ne mangiavo a cucchiai senza mai fermarmi, socchiudevo gli occhi e gustavo quel meraviglioso intruglio e mi immaginavo di essere il figlio di un mabaraja.
Vorrei ritrovare, di quei Natali, le persone che ho tanto amato e che oggi sopravvivono nella memoria: gli abbracci di mia madre, i silenzi pieni d’amore di mio padre, il profumo di buono che aveva la mia nonna. Chissà dove saranno loro in questo momento. Te lo confesso: sono tantissime le cose che vorrei ritrovare. Sono cose che oggi non ho più, eppure non farei cambio con nulla al posto della mia età: quella non la cancellerei mai e anche adesso, come allora, continuo a credere nell’esistenza di Babbo Natale, nella bontà, nei giusti premi. Mi rifiuto di pensare che in questa vita il bene non venga ripagato.
Così, nonostante tutto, continuo a sorridere, ad emozionarmi, a sognare: sono contentissimo di farlo e non ho più paura del futuro. Questa è stata per me una grandissima conquista della vita e resto quindi convinto più che mai che questa sia la stagione più bella, che sarebbe bello condividerla sempre con le persone più care a noi. Ecco, faccio anche a te lo stesso augurio: quello di sentire, in questi giorni di Natale, quelle voci, quei profumi che ci arrivano da un passato che oggi non c’è più. Che, certamente, non può più tornare ma che ha contribuito a fare di noi le persone che siamo.
Se così sarà, ci aspetta un grandissimo Natale.
Quindi auguro a te e a tutti i tuoi cari un Natale di profumi e di memoria».

 


(*) Testo della meditazione tenuta da don Marco Pozza a Cogollo del Cengio (VI) nel percorso dell’Avvento 2016 dal titolo La scomodità di Dio.

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