Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

faro

Vi capita mai di svegliarvi nel cuore della notte e di essere costretti ad alzarvi? Sicuramente sì. Sbadigliando con gli occhi socchiusi, abbandonate l’amato cuscino e vi convincete a muovervi dopo parecchi tentennamenti. Vi rifiutate di accendere la luce, per non svegliare chi riposa al vostro fianco, o anche solo per non dover subire il simpatico trauma del passaggio dal buio all’illuminazione. Infine, con cautela, avrete sempre l’istinto di muovervi a tentoni, nonostante conosciate a menadito le mura domestiche e nel momento del silenzio più assoluto pregherete in tutte le lingue del mondo che il mignolo del piede non abbia un incontro ravvicinato con qualche spigolo traditore.
Nella letteratura di ogni dove, la notte porta con sé molteplici significati. È l’ora del buio, dello smarrimento fisico e metaforico, della paura che coglie i sensi e lo spirito. Ma è anche l’ora delle stelle che rischiarano il cammino, dell’attesa fiduciosa del primo raggio di sole, del momento in cui ci si può concedere riposo e riflessione.
Ci fu una notte in cui il fariseo Nicodemo proprio non riuscì a prendere sonno (Gv 3,1-21):

“Tra i farisei c’era un uomo chiamato Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Egli andò da Gesù di notte e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro, nessuno infatti può compiere questi segni se Dio non è con lui».”

L’irrequietezza di saperne di più guidò i suoi passi fino a Gesù. Nelle sue intenzioni, doveva essere una di quelle notti che portano consiglio, come recita il proverbio; invece, da quel dialogo se ne uscì più frastornato di come vi era entrato, con in mente più domande che risposte, ma almeno con una certezza nel cuore: Dio vuole salvare il mondo, non condannarlo (“Dio mandò il Figlio nel mondo perché il mondo sia salvato”).
Nel cuore della notte, Gesù presenta se stesso come luce che illumina il cammino di ogni uomo. È una sorta di ritornello tipico del vangelo di Giovanni, un filo che percorre la sua narrazione, da cima a fondo.
“Lampada per i miei passi è la tua parola” (Sal 119,25), recita l’Antico Testamento, ma se ci fermiamo al significato letterale rischiamo di interpretare Gesù come una semplice torcia, una pila elettrica da puntare in basso per poter vedere dove si va senza sbattere contro gli spigoli. Nonostante l’indubbia utilità, rimane comunque una luce che è pur sempre limitata.
Gesù è invece un faro. Non rischiara solo il cammino, ma punta dritto verso di noi. Scova ogni nostro angolo buio, ogni anfratto, ogni crepa. E la libertà che ci dona è tale che ci lascia decidere se lasciarci illuminare, con i nostri pregi e difetti, o piuttosto correre a nasconderci, preferendo la penombra o addirittura il buio più totale.

“Chi crede in lui non è giudicato, ma chi non crede in lui è già stato giudicato.” (Gv 3,18)

Ma come, non aveva appena detto che è venuto per salvare il mondo e non per sottoporlo a giudizio, com’è che ora, ad appena mezzo versetto di distanza, Gesù pronuncia parole di condanna? Nessuna contraddizione: la risposta si gioca tutta sulla dicotomia luce/buio e sull’accoglienza che riserviamo ad esse. La fede non è una questione di credere/non credere, un fatto puramente mentale o di atteggiamenti di preghiera.
È “fare o non fare”, per citare un famoso personaggio della saga di Star Wars. Fare il bene o fare il male, scegliendo uno di essi con cognizione e con responsabilità.
Ecco che allora il contrario di fede non è l’ateismo, bensì la mala-fede, quella frode che consapevolmente agisce contro Dio e contro il prossimo. È un indugiare nel male, crogiolandosi in esso, scegliere il buio per poter operare con meschinità e pochezza, nonostante la luce lì a due passi, che t’invita a lasciarti abbracciare.
Fare o non fare.
Come il Buon Samaritano. Sacerdote e levita non si fermano lungo la strada, non fanno, nonostante il loro status che dovrebbe porli a tu per tu con Dio. Il samaritano, giudicato lontano dalla fede vera, invece soccorre e fa, si fa prossimo per colui che è in difficoltà.
Come la donna sirofenicia, che non fa parte del cosiddetto vero Israele, ma ha il coraggio di domandare briciole d’amore, insegnandoci che per il Padre non esiste una divisione tra figli e non-figli perché la dimensione della sua Misericordia è universale.

“Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». […] «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri».” (Mt 15,21-28)

Per questo, la fede di ogni credente in Gesù non è una medaglia da appuntare sul bavero, da rimirare con l’orgoglio di chi pensa “io ce l’ho e voi no”. Non è un piedistallo su cui ergersi, per osservare dall’alto in basso chi non l’ha avuta in dono, chi non ha mai incontrato nessuno che si prendesse la briga di aiutarlo a trovare la strada.
La fede è una scorta di salvagenti, da non tenere chiusi a chiave, ma da lanciare a chi annaspa in acque profonde. È una mano tesa, per sorreggere chi è incerto nel cammino. Una bisaccia di semi senza numero, da gettare senza lesinare, perché non sia mai che riescano a fiorire anche tra rocce e spine.
Chi, meglio di Dio, sa scrutare fino in fondo al cuore dell’uomo, per valutarne la fede e le opere? Chi, più di Dio, che ha vinto la morte, per potersi palesare nell’abbraccio con la sua creatura al suo ultimo istante di vita? Così come il padrone della vigna concede la medesima paga anche ai lavoratori dell’ultima ora (Mt 20,1-16), allo stesso modo il Padre non allontana chi gli si affida nel momento dell’incontro con lui, nonostante una vita trascorsa a tentennare o a guardare altrove.
La fede è un abito da lavoro, guanti spessi, stivali pesanti, cappello per proteggersi dal caldo e poi via, a sporcarsi le mani, a scendere su strade sterrate e polverose, frugare tra i rovi, impantanarsi ben bene lungo i fossati. È un fare che non ha altro desiderio che contagiare chiunque capiti a tiro, affinché ciascun uomo possa imparare a sentirsi figlio senza paure o incertezze di sorta.

Immagine di copertina: Pixtury
Papa Francesco, il bambino ed il padre ateo
Davvero chi non crede è condannato?

Vicentina, classe 1979, piedi ben piantati per terra e testa sempre tra le nuvole. È una razionale sognatrice, una inguaribile ottimista ed una spietata realista. Filosofa per passione, biblista per spirito d’avventura, insegnante per vocazione e professione. Giunta alla fine del liceo classico gli studi universitari le si pongono davanti con un bel dilemma: scegliere filosofia o teologia? La valutazione è ardua, s’incammina lungo la via degli studi filosofici ma la passione per la teologia e la Sacra Scrittura continua ad ardere nel petto e non vuole sopirsi per niente al mondo. Così, fatto trenta, facciamo trentuno! e per il Magistero in Scienze Religiose sfida le nebbie padane delle lezioni serali: nulla pesa, quel sentiero le sembra il paese dei balocchi e la realizzazione di un sogno nel cassetto. Il traguardo, tuttavia, è ancora ben lontano dall’essere raggiunto, perché nel frattempo la città eterna ha levato il suo richiamo, simile a quello delle sirene di omerica memoria. Che fare, seguire l’esempio di Ulisse e navigare in sicurezza o mollare gli ormeggi e veleggiare verso un futuro incerto? L’invito del Maestro a prendere il largo è troppo forte e troppo bello per essere inascoltato, così fa fagotto e parte allo sbaraglio, una scommessa che poteva sembrare già persa in partenza. Nei primi mesi di permanenza nella capitale il Pontificio Istituto Biblico sembra occhieggiarla burbero, severo nei suoi ritmi di studio pazzo e disperatissimo. Ci sono stati scogli improvvisi, tempeste ciclopiche, tentazioni di cambiare rotta per ritornare alla sicurezza del suolo natio. Ma la bilancia della vita le ha riservato sull’altro piatto, quello più pesante, una strada costruita passo dopo passo ed un lavoro come insegnante di religione nella diocesi di Roma. L’approdo, più che un porto sicuro, le piace interpretarlo come un nuovo trampolino di lancio, perché ama pensare che è sempre tempo per imparare cose nuove.

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