Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

tenda sotto le stelle

Il Natale è oramai inscatolato assieme al presepio, alle stelline a led e al muschio finto. Tutto è sigillato sotto giri doppi di scotch. L’evangelista Giovanni, però, la capanna di Betlemme col Bambinello e tutto il suo entourage, pare non li abbia mai tirati fuori una volta dalla scatola della sua narrazione. Egli ci racconta il Mistero del Dio nascente con una penna così poetica e con un occhio così trasfigurato e contemplativo da risultare scorrevole ed ostico allo stesso tempo. Mentre la liturgia settimanale ci presenta con ritmo serrato la straordinarietà dei fatti e delle parole di Gesù nell’ordinario della sua (e nostra) ferialità, il versetto alleluiatico di domenica prossima ci accompagna, per una solenne lezione di volo, sulle ali d’aquila dell’evangelista e del suo celebre prologo, e assieme a lui ci invita a sorvolare come un drone, contemplando ancora -stavolta dall’alto- il mistero dell’Incarnazione, per non inscatolarlo e magari interiorizzarlo nella sua totalità. Per comprenderlo bisogna lasciarsi guidare non da ciò che si avvicina da fuori, ma da ciò che s’innalza dentro. Mentre infatti, i racconti degli altri evangelisti sono il seme che entra in noi, gli scritti giovannei ci mostrano come il seme cresce in noi. Il ricordo di quell’antica Parola che in principio accese la luce nella grande stanza del mondo, è adesso il riverbero di un’onda dentro una conchiglia, che ha in se il richiamo dell’Infinito. Basta accostarla alle orecchie per percepire subito tre ondate: «In principio era il Verbo/ e il Verbo era presso Dio/ e il Verbo era Dio». Dentro una conchiglia, il rimbombo del passato diventa l’eco del futuro. Come schiuma che resta sulla battigia dopo l’ondata è il Verbo, la Parola, il Cristo. L’essenziale. Prima era «presso Dio» e contemporaneamente dovunque: nei campi, nelle nuvole e nei fiori. Nelle zampe delle formiche, e nelle piume dei passeri. La creazione e la creatura -ogni cosa visibile e invisibile- sono frutto di una voce alla quale non seppero resistere: tu dicesti e tutte le cose furono fatte (Gdt 16, 14). S’accese la luce, cominciò la vita. Nella danza di una Sapienza ineffabile, la Parola diventò azione. Ora però quella Voce non giunge più da un podio planetario, non crea più da un orizzonte cosmico indefinito e irraggiungibile: il Verbo coniugato nella forma all’Infinito assume i modi e la pienezza dei tempi del finito. Ciò che luce fu per illuminare ogni angolo remoto della terra sceglie d’accomodarsi dentro una lampada per guidare i passi dell’uomo, senza perdere, però, la primordiale intensità. D’ora in poi, vita e luce saranno sinonimi. Ogni vita, infatti, riporterà addosso striature di Luce, anche nel bel mezzo di quella battaglia eterna che si perpetra nell’orizzonte del mondo, laddove le tenebre dichiarano costantemente guerra alla luce. Proprio lì, la Luce, muove i suoi primi passi, da quando è scesa in terra: nelle tenebre del mondo, degli uomini e del male. Della storia. La storia non l’afferra, il mondo non afferra, gli uomini non capiscono. Quella Luce risulta troppo forte per occhi assuefatti al lume delle candele. Nessuno, nemmeno i suoi -quelli che gli appartenevano per volere di carne-, son disposti ad offrirGli accoglienza: «dimorava nel bel mezzo di una tribù, fra i litigi, le gelosie, i piccoli drammi d’una numerosa parentela» (F. Mauriac). Il male s’afferra -s’azzuffa!- con la Luce, ma non riesce ad afferrarla: le tenebre non l’hanno vinta, la Luce. Anche il doppio senso di una parola rende giustizia alla Parola. La scala onirica di Giacobbe è ripercorsa al contrario: dall’alto verso il basso. Si abbassa il ponte levatoio del Cielo, e giù per una scala azzurra, Dio tocca terra. Poi, sulla scia di questo slancio vertiginoso e gravitazionale, prese telo e picchetti, e s’attendò tra noi. Per abitare con noi. Il convivente di casa Trinità, rimase fedele al radicale bisogno di Dio di convivere con i coinquilini della terra, e si fece carne. Cristo è ora un uomo che pianta la sua tenda nelle praterie e nei deserti dell’uomo. Tra gracili fili d’erba e conche sabbiose d’umane fragilità, Egli interra i suoi tiranti. Sceglie come tetto il cielo -ora oscuro e tetro, ora terso e ammantato di stelle- delle doppiezze dell’uomo. Colui che le stelle le ha create, sceglie di venire a dimorare sotto le stelle. Colui che è venuto ad illuminare la notte, sceglie di dimorare nell’oscurità. Al suo Nome non corrisponderà mai alcun indirizzo, alla domanda: «Dove dimori?», la risposta sarà «Vieni e vedi». La tenda, infatti, è la casa di Chi una casa non ce l’ha: il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo. Lo si può trovare, al massimo, appostato al civico di ogni cuore in attesa che si schiuda, accampato vicino all’uomo, perchè Gli apra. Per questo ha assunto la natura umana: per farsi dimora dell’uomo, per dimorare nell’uomo. Una tenda di carne è Cristo, Tempio di muscoli e di cuore. Di occhi che (si) innamorano e di labbra arse per la sete dell’uomo. Dal giorno che è venuto, la salvezza viaggia su p-assaggi di mani che toccano, di piedi che viaggiano, di braccia che stringono, di occhi che illuminano. Chi va incontro a quel Corpo -dimora sempre accessibile-, chi dimorerà alla Sua ombra sarà chiamato figlio di Dio. E potrà uscire, insieme a Lui, a riveder le stelle…

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