La principessa e la migrante, la nobildonna e la profuga, la figlia di re e la figlia di fuggiaschi. Le due bambine: sarebbe meglio chiamarle così, giacché per le differenze di genere e di prospettive ci penserà già il mondo a portarle alla luce, segnando tra loro distanze incommensurabili. Sono nate nelle stesse ore: una in un ospedale regale di Londra, l’altra nei compartimenti di salvataggio di una nave della Marina Militare Italiana. La prima ha un nome nel cui sangue scorre nobiltà e prestigio: Charlotte Diana Elizabeth, un nome che tiene in perfetto equilibrio l’albero genealogico di una famiglia tempestata di donne. L’altra ha un nome altrettanto prestigioso e fiero: Francesca Marina, un miscuglio di sangue papale – quel nome porta in sè l’eco di papa Francesco – e di spiccata umanità, quella dei naviganti che salvano dalle onde storie e rammendano speranze. La prima è stata annunciata da un’espressione secolare e rigida nel suo protocollo: «Lunga vita alla Principessa. Dio salvi la Regina!»; l’altra è stata avvolta in un lenzuolo a mò di fiocco. Ogni nascita, quando s’annuncia, ha i suoi riti e i suoi cerimoniali. Ogni nascita è per la vita.
Sono due bambine, entrambe così inermi e spaesate davanti all’esistenza sulla quale s’affacciano. Fra qualche settimana, una inizierà a viaggiare tra gli ossequi di balie dalle mille referenze, sotto gli occhi ambiziosi e curiosi di un mondo sempre illuminato a giorno. L’altra inizierà a percorrere la sua via crucis tra le onde di un mare ben più tempestoso di quello sul quale è nata: quello dell’essere straniera, col suo status di profuga, bambina nera ospitata in una terra di bambini bianchi. Eppure, a guardarle, sembrano due gemelle: con quel sorriso ch’è tipico di chi ha appena salutato la luce, con quella voglia matta d’allargare entrambe le braccia e far schioccare le ossa, con addosso quell’innata e silente spavalderia di far sapere al mondo che sono arrivate. Che, per cortesia, fermino tutto per un istante per dare loro il benvenuto.
Sul loro volto c’è rimasto un filo di stanchezza, quella stanchezza che agli eroi piace tantissimo quando si cuce addosso: è la stanchezza di un combattimento, di una strenua battaglia, di un’impresa tutta firmata col fiatone sul collo. Di una nascita arrivata dopo un lunghissimo viaggio: uguale per durata nei suoi nove mesi, diverso per peripezie tra silenzi londinesi e burrasche libiche. Ciò che sarà di loro non è scritto da nessuna parte: l’uomo può nascere in un pollaio e diventare un meraviglioso cigno. Nel mezzo di mille differenze, tra le due bambine c’è, dunque, un’uguaglianza che consola e unisce: nel loro certificato di nascita è scritto dove e quando sono venute al mondo. Non si legge, però, il motivo e lo scopo della loro venuta al mondo. Nemmeno il punto d’approdo dei loro sogni, quell’essenza primordiale che narrerà l’intensità di una vita.
Questa nascita ha le sembienze di una mezza profezia e di sfida al mondo: mettiamole entrambe sulla linea di partenza e lasciamole correre. Dietro di loro ci sono già due splendide matrone, quasi patrone e allenatrici: la nonna di una portava lo stesso nome, Diana. Quell’altra potrebbe avere come nonna adottiva un’altra donna, pure lei amante della bellezza precaria: quella Teresa che a Calcutta mise a soqquadro la rassegnazione. Due donne, Teresa e Diana, morte nella medesima settimana di fine estate 1997. Anche quella volta le appaiarono nelle foto: la principessa e la piccola suora di Calcutta. Pochi, però, seppero dire quale delle due fosse stata regina per davvero: a guardare i funerali, quel giorno il titolo di regina la strada lo cucì addosso a Teresa. Scalza e scarna, morì da santa. D’altra parte funziona sempre così: c’è chi si autoproclama leader e chi sa che la leadership te la può tributare solo la strada. L’unica cosa che non è questione di sangue nobile ma che è rimasta alla portata di tutti: Dio salvi la speranza.