Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

rammendare

Sono barconi che affondano. Ed è un mare che va mutando: da nostrum a di nessuno. Una terra di mezzo dove i fili del bene s’intrecciano inevitabilmente con i fili del male. E’ il destino della periferia, dove il sacrificio corre sempre il rischio di diventare suicidio: «Occorre distinguere il sacrificio per amore, che è nobile, dal suicidio per disperazione, che è ignobile e abietto», scrisse Antoine de Saint-Exupéry. Il dramma è proporzionale all’impotenza, le armi consunte a disposizione sono inversamente proporzionali ai buoni propositi, la gente campeggia tra il piede di guerra e la porta aperta.
Eppure quei barconi – che rimarranno racconti di drammi e di esequie – rischiano oggi di mandare nel dimenticatoio mille altre barche che affondano. Ce l’hanno mostrato i migranti, in presa diretta: spostarsi tutto d’un tratto da una parte del barcone per cercare salvezza è correre il rischio che la barca perda l’equilibrio. Che da scialuppa di salvataggio divenga di lì ad un istante tritacarne di morte. Quei naufragi, dunque, sono dramma ma anche simbologia: spostare tutto l’interesse su una sponda dell’umano è parcheggiare in soffitta quell’umano più scottante che si consuma accanto a noi. Come uno studente che di pomeriggio, incapace di risolvere un’equazione, cambia materia: si risolve forse quell’equazione scordandosi di essa? E’ il naufragio silenzioso e quotidiano che si riversa tra le strade d’Italia: del papà che ha perduto il lavoro e la sua dignità, del giovane al quale hanno stressato i sogni, della madre abbindolata nella sua via crucis. Del vecchio dimenticato nel quartiere popolare, dell’uomo infangato sulle pagine dei giornali, dei bambini violentati nell’indifferenza generale. Di chi si avverte esasperato nel mendicare ciò che invece sarebbe il giusto guadagno della sua fatica. Sono i naufragi più piccoli quelli più fastidiosi da gestire: sui grandi sistemi siamo tutti d’accordo, finchè rimangono generali. E’ dai piccoli particolari, però, che si possono riconoscere i capolavori, distinguendoli dalle contraffazioni assai in voga.
Ogni migrante reca in sè una storia da tradurre. Tradurla, come è di tutte le traduzioni, è un po’ anche tradirla. Non tradurla è perdersi la possibilità di nuove sfacettature della conoscenza. Per tradurla, però, devo imparare la lingua. “Vado tre mesi a fare volontariato in Sud-America” mi ha confidato qualche settimana fa un ragazzo: certe intuizioni sanno di buono. Giorni dopo incontro il padre e mi congratulo per quella scelta. Senza acrimonia alcuna, quell’uomo mi confida il suo stato d’animo: “Con quello che è piombato quest’anno in famiglia, rimanere significava volerci bene”. Per quindici anni, adolescenza compresa, mio fratello ha cambiato i pannolini a mio nonno infermo, mentre io provavo ad aiutare i tossici. Per dieci mesi mia madre ha abbracciato un marito disoccupato mentre io, distante, inseguivo i miei sogni. Da oltre vent’anni don Fortunato lo stanno lasciando solo nelle sue battaglie per l’infanzia violata: lui, imperterrito, continua. Oggi, quando li incontro, mi sento costretto a guardare il mio volto: la storia che faccio più fatica ad amare. L’unica, però, che mi accredita la sincera verità di ogni altro gesto d’amore e d’accoglienza.

(da Il Giornale, 6 maggio 2015)


Inizia con questa riflessione la mia collaborazione con Il Giornale. Un grazie al direttore Alessandro Sallusti per la fiducia e la simpatia con la quale mi ha accolto tra le firme del quotidiano da lui diretto.

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