Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

 2020 06 28 15.32.30

Ci sono persone che, quando le incontri, non puoi fare a meno di notare alcuni dettagli. Quando conosci un prete, alcune cose non possono sfuggirti. Quando nei incontri uno con la polvere dell’oratorio attaccata alla suola delle scarpe, non pensi che possa vestire la porpora: fai fatica a pensarlo dietro una scrivania, nell’ambito amministrativo della sua funzione sacerdotale, anche solo come parroco.
Un giorno, però, scopri che “don Luca Raimondi” (proprio lui: quello dell’oratorio di Desio, quello che ha celebrato la Messa in autogrill sulla strada verso Colonia, quello che ti aveva prestato un cd dei Nomadi, quello che per anni aveva avuto l’ingrato incarico di essere tuo direttore spirituale) ora, non solo è diventato monsignore, ma, addirittura, vescovo ausiliare!
Credo che nessuna parola possa descrivere l’emozione al riguardo. Stupore, meraviglia, sconcerto, sgomento, incredulità. Ma anche: fiducia, affidamento, felicità.
E, a ben pensarci, non mi stupisce questa commistione spuria di sentimenti contrastanti e conflittuali. Perché rispecchiano il nuovo episcopo.

Molti erano attratti da lui per i metodi poco convenzionali, per l’assoluta incapacità di diplomazia, per l’impulsività e la schiettezza, per l’allergia alla burocrazia, per il grande carisma, per la comunicativa avvincente, per la parlantina interessante.
Eppure, in tutto questo, non ha mai dimenticato la cosa fondamentale. Ogni volta in cui si accorge di ogni eventuale, possibile accentramento, subito, affannosamente, raddrizza il tuo sguardo e con il dito, come il Battista, ti induce a voltarti, verso l’Unico importante: “ecco l’Agnello di Dio!”.
Da uno che accompagna i ragazzi al pub, per festeggiare la Pasqua e, dopo aver “gelato” il barista, con la spiegazione che «siamo qui per festeggiare un Amico, che è morto», prontamente aggiunge «eh… ma poi è risorto!», ti aspetteresti un tipo guascone, persino un po’ arrogante, superficiale e pressapochista, capace di attirare i più giovani solo in virtù della propria trasformazione in ottimo “tour operator”. La realtà, però, non è mai stata quella.
Ha sempre cercato di prestare la massima attenzione ai più piccoli, ai “meno notati”, ai portatori di handicap, mai però come una sorta di “contentino”, bensì, sensibilizzando l’intera comunità, affinché come in una famiglia, anche in oratorio, ci si facesse carico anche e soprattutto di chi era dimenticato da tutte le altre istituzioni. Non solo: la liturgia era al centro delle sue occupazioni pastorali, cercando di favorire la piena partecipazione e fruizione di tutti, a partire dai fanciulli, considerando la minore capacità di attenzione e riservando loro i posti più avanzati, se serviva, “litigando” con le beghine di paese, che mal digerivano l’arretramento rispetto ai loro abituali “posti di combattimento”. Nonostante abbia, spesso, utilizzato i mezzi dell’arte, della mimica, del canto o dello sport per meglio comunicare con i più giovani, il momento della celebrazione non ha mai mancato di cercare il raccoglimento, il luogo ed il modo più consoni, attraverso i quali poter guardare con sguardo innamorato a Gesù Eucaristia, che mostrava al popolo, con gesto ampio, di modo da offrirlo all’adorazione di chiunque nella cattedrale, persino a chi aveva trovato posto in fondo alla chiesa, vicino alle porte oppure dietro a qualche colonna: nessuno doveva potersi sottrarre allo sguardo d’amore di Cristo che si dona, nel sacrificio eucaristico. La stessa attenzione, era poi riservata a Cristo, quando era chiamato a portarLo nelle case: con semplicità, lui, chiacchierone e pronto allo scherzo, si scusava con anticipo, mentre, con cura, si sistemava la teca eucaristica in una tasca («Scusa, sai, ma ora vorrei pregare un po’, mentre Lo porto agli ammalati»), perché ricercava raccoglimento e silenzio, tutto compreso nel suo compito di essere “Cristoforo” (cioè “portatore di Cristo”).

Non mi sono mai stupita per la sua capacità di comunicare, di parlare, di attirare l’attenzione di tutti. Quello era un dono, una dote naturale, di cui poteva solo ringraziare Dio. Quello che mi provocava stupore e che – spero! – potrà rimanere tale è il coraggio di inginocchiarsi di fronte all’Eucaristia, di non aver paura di proporre a chiunque traguardi elevati ed impegnativi, di aver il coraggio di conciliare la preghiera con l’azione, senza mai opporle, ma vedendo in esse l’adempimento della promessa di Cristo: “Ecco, sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo!”.

 

L’augurio – e la preghiera – è che, anche ora, Eccellenza, riuscirai a non dimenticarti mai delle tue origini, dell’importanza dell’oratorio nella pastorale e che troverai la forza delle quotidiane responsabilità, attingendola alla preghiera quotidiana, alla contemplazione, alla celebrazione e all’adorazione dell’Eucaristia, nell’umiltà, nella benevolenza e nell’obbedienza alla Chiesa, che Cristo, nonostante tutto, ama e di cui ciascuno di noi fa parte.

 

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