Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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“Giuseppe, re dei sogni” è stato il titolo che la Dreamworks ha voluto dare al suo progetto d’animazione sulla biografia, pur con qualche licenza, del patriarca Giuseppe, penultimo figlio di Giacobbe. Un tipo originale, a metà strada tra l’arrogante e l’ingenuo, che, per via di quel suo dono di interpretare i sogni, ha vissuto diverse avventure: ostracizzato dai suoi fratelli, venduto, abbindolato, imprigionato, osannato ed infine reintegrato nella famiglia, perché disposto a perdonare, pur di ricominciare. Una figura affascinante, enigmatica, ma al contempo estremamente attuale, di cui possiamo leggere la storia nel libro della Genesi (capitoli 37-50).
Nonostante l’associazione, probabilmente più immediata, dovuta alla relativa attualità dell’opera cinematografica, anche lo sposo di Maria ha ed avrà spesso a che fare con i sogni, come sottolinea il brano del Vangelo.

Morto Erode, ecco, un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe in Egitto e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre e va’ nella terra d’Israele; sono morti infatti quelli che cercavano di uccidere il bambino». Egli si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele. Ma, quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno, si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nàzaret, perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo dei profeti: «Sarà chiamato Nazareno» (Mt 2,19-23)

L’episodio citato, tuttavia, non è l’unico in cui Giuseppe di Nazareth si trova a fare i conti con i sogni. È infatti un sogno ad avvertirlo che la sua promessa sposa (paradosso dei paradossi!) gli è rimasta fedele, pur essendo rimasta incinta. Un angelo visita Maria, Giuseppe dovrà accontentarsi d’un sogno. Gli basterà. Se lo farà bastare. Ci è stato costretto, in un certo senso, dagli eventi, per cui aveva bisogno di un segno per capire quale direzione prendere. Gli e-venti lo spingevano in direzione opposta (regnava Archelao, figlio di Erode, per cui era logico da pensare, con pragmatismo che “nessun frutto cade lontano dalla pianta”), ci doveva essere qualcosa che lo convincesse del contrario, affinché Gesù potesse diventare «Nazareno».
Ma i sogni hanno credibilità, oppure no? Prima che la psicologia e le neuroscienze ne studiassero, con rigore, funzione e potenzialità, il folclore aveva approntato le proprie distinzione, che il Sommo poeta riporta nel suo capolavoro: “presso al mattin del ver si sogna” (Inferno 26, 7). Tradizionalmente, c’era quindi un tempo (quello del mattino, in quanto vicino al risveglio e rappresentante una sorta di “ momento a metà strada”) in cui il sogno potesse raccontare la verità, essere quindi rivelatore. È interessante notare come, al di là della Bibbia stessa, l’intera letteratura, dai grandi classici (come Omero), fino alle sperimentazioni della letteratura contemporanea, questa manifestazione di coscienza abbia – ininterrottamente – interrogato l’uomo.
Più incisivo rimane, tuttavia, il ritratto che possiamo trarre da questo piccolo squarcio della vita della Sacra Famiglia e, in particolare, della figura di San Giuseppe, pressoché “muta”, in tutto il Vangelo – e in questo stesso brano, del resto -.
Giuseppe parla poco, ma agisce con decisione. È un artigiano, abita a far parlare le mani: è con esse che fa prendere vita agli oggetti, li rende nuovamente disponibili quando rotti, ne cambia la funzione, ne migliora l’utilità. È sempre con un certo orgoglio che ogni persona, abituata ad usare le mani nel proprio lavoro, ne mostra il risultato. Perché ciò dipende non solo dalla bravura e dal talento, ma anche dalla capacità di sfruttare il tempo a proprio vantaggio, impiegandolo per compiere l’opera, senza perderlo in facezie inutili.
È da questa caratteristica (la capacità di saper leggere il tempo a proprio vantaggio) che discende la seconda, che emerge, con maggiore energia proprio in questo brano: Giuseppe è il custode della Sacra Famiglia. Protegge e si prende cura di Maria e del Figlio, perché nessuno, neppure Dio, può diventare uomo, senza un padre che gli mostri cosa significhi possedere la forza, ma scegliere di utilizzare come protezione, per sorreggere chi si ama e costruire serenità, anche tra i travagli della vita. In questo è Dio stesso a fare da paradigma: parlando del rapporto che Dio ha col proprio popolo, si dice infatti che “lo custodì come la pupilla del suo occhio” (Dt 32,10). È un’immagine estremamente significativa. Ogni parte del corpo ha la propria importanza, naturalmente. Tuttavia, basta un esempio per evidenziare quanto ci disorienti perdere (anche solo, temporaneamente) l’uso della vista: il primo istinto, quando siamo abbagliati, è fermarci. Eppure, non c’è alcun arto che sia stato colpito. Abbiamo, però, consapevolezza, che, se non sappiamo dove andare, rischiamo di farci male. Oppure ancora: chi metterebbe mai – volutamente – un dito in un occhio. Ecco: custodire la pupilla dell’occhio è custodire la parte più fragile e delicata, ma preziosa di noi stessi. Dio fa così con ciascuno di noi.

Nella lettera agli Efesini, San Paolo dispensa alcuni consigli sulle relazioni familiari, che sembrano attuali anche per noi, oggi.
Innanzitutto, in un momento in cui le famiglie sono sicuramente messe a dura prova da una cultura che pare distante anni-luce dalle loro necessità, dal brano si evince un principio importante. Il matrimonio non si celebra quando ci si ama, bensì quando si sceglie di voler imparare ad amare, nella quotidianità, anche di fronte alle difficoltà e – soprattutto – gli imprevisti (che ogni matrimonio, anche il più sereno, inevitabilmente, si trova ad affrontare). Se l’amore non è sostenuto dalla volontà e dalla libertà di una scelta, è – probabilmente – inevitabile che, ad un certo punto, si ponga fine a ciò che si era fatto iniziare. «Sei cambiato/a»: è l’accusa di qualcuno. Cambiare è inevitabile, la vita ti fa evolvere. Sposarsi non è contrarre un accordo per rimanere uguali-a-se stessi. Il problema non è cambiare, ma imparare a cambiare assieme. Come una danza, in cui il cambio di passo di uno è accompagnato dall’opportuno cambio di passo del partner. Per poter mettere in atto una simile mossa, però, è necessario rimanere concentrati sul «noi» e non ripiegarsi sull’«io», quando la tristezza, la noia, la fatica o la stanchezza tendono a spingerci a farlo.
In particolare, l’Apostolo sottolinea la reciprocità, nei rapporti (marito/moglie, genitori/figli) ma, soprattutto, il fine ultimo. Dice infatti: «perché tu sia felice» (Ef 6,3). Il “devi perché devi” non funziona con l’uomo. Può essere un motore che fa partire, ma non basta, quando si tratta di mantenere la marcia. Chi non cerca la felicità? La felicità risiede nel Bene, che, alla volte, si declina in scelte (andare a trovare la mamma, anche se ha l’alzeheimer e non si ricorda più chi io sia; trascorrere del tempo coi nonni, anche se “dicono sempre le stesse cose”; dedicare del tempo a mio figlio, anche se sono stanco e vorrei rilassarmi) che, magari richiedono di fare un po’ di fatica Ma consentono di vivere nella “gioia piena”, quella che viene da Dio che, come a Cana, sa tramutare in ebbrezza anche la nostra stanchezza.

(Letture festive ambrosiane nella domenica della Sacra Famiglia: Sir 44,23-45,1a. 2-5; Sal 111; Ef 5,33-6,4; Mt 2,19-23)


 Fonte immagine: Pixabay

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