Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

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Le novità apportate dal famoso-famigerato lockdown conducono a riflettere su un aspetto specifico della vita dell’uomo: quello che potremmo chiamare l’irragionevole progettualità umana.
È insita nell’essere umano stesso, probabilmente da tempi atavici e, personalmente, la ritengo una delle più forti spiegazioni al senso religioso e all’immortalità dell’anima.
È inevitabile notare come ciascuno di noi, persino i più anziani, abbia una spinta irrefrenabile verso il futuro, che si esprime, in particolar modo, nella progettualità a breve, lungo o lunghissimo termine. Basti pensare a cosa ci ha fatto innervosire di più, in questa quarantena. Non i morti, non le inadempienze, non l’inettitudine, il pressapochismo, il menefreghismo. Ciò che ci ha urtato i nervi è stata l’impossibilità di fare progetti, l’essere costretti a navigare a vista, guardandoci intorno, fidandoci degli altri, per ciò che oltrepassava le nostre specifiche competenze.
Questo porta, però, a riflettere sulla natura stessa dell’uomo. In natura, non esistono “desideri impossibili”. Il lupo, carnivoro, desidera istintivamente mangiare le prede che cattura. Così come una pecora o una mucca, erbivora, non cerca di mangiarsi, ma desidera brucare l’erba. Un leone non cerca la neve: non è il suo habitat. L’uomo invece progetta, studia, scopre, spera, costruisce, edifica, cerca – ogni volta – nuove soluzioni ai propri problemi, intesse relazioni. In tutti i casi, questi desideri si dimostrano realizzabili, non impossibili. Ciò mi porta a pensare che – allora – se l’uomo, quasi istintivamente, rifiuta la morte come se non fosse cosa sua, come se non lo definisse davvero (tanto che ciascuno cerca un modo per lasciare un segno del proprio passaggio, anche solo con un figlio, un progetto, un nome, un marchio che gli sopravvivano), un motivo ci dev’essere. Forse, davvero, siamo fatti per l’eternità e «il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio», come diceva s. Agostino.

Parlando in termini più quotidiani, se siamo sinceri, ciascuno di noi, anche solo tre mesi fa, alla semplice domanda: «Che farai a Pasqua?» avrebbe, probabilmente, risposto «Il solito» e, tra “il solito” la spiegazione di cosa fosse, per lui (o per lei), il “solito” avrebbe, probabilmente, inserito una sbuffata. Poteva trattarsi di una grigliata con gli amici, un pranzo in famiglia, un pic-nic con la fidanzata… non è così importante: in generale, però, ciò che diventa routine, prima o poi ci lascia addosso una sensazione di fastidio. Sensazione oltremodo amplificata, naturalmente, durante il periodo dell’adolescenza, in cui, per quanto possano avere un buon rapporto con i genitori ed i fratelli, avvertono in ogni caso ogni appuntamento in famiglia come una costrizione ed un vincolo alla loro libertà, che è anche sinonimo della costruzione del proprio sé.
È curioso, poi, notare come, a fronte del divieto, oltre che di ogni assembramento, di ogni spostamento, la nostalgia di quel che si poteva fare si è impadronita del nostro cuore. Quello che, magari, spesso guardavamo con un certo fastidio, ora è diventato improvvisamente desiderabile.
Certo, il primo commento può senz’altro essere: “siamo incontentabili e bastiancontrari: le cose ci piacciono, solo quando ci sono proibite!”. Forse però, dentro questa (che è pur sempre una riflessione vera), possiamo scorgere una realtà ancora più profonda. Nella nostalgia che avvertiamo, scorgiamo la bellezza di quanto abbiamo perduto (anche se temporaneamente).
San Tommaso d’Aquino, in un romanzo di Louis de Wohl (La liberazione del gigante),del resto, ravvisava la motivazione di ogni sofferenza nella mancanza, nella separazione, nel distacco. E la radice massima di ogni distacco è l’allontanamento e la separazione da Dio. Se ci pensiamo bene: l’esperienza gli dà ragione. È il distacco che ci fa soffrire. È per questo che piange il bambino piccolo, se non vede la mamma nella stessa stanza (lo stesso dicasi per il bambino, più grandicello, il primo giorno d’asilo o di scuola). È questo che ci fa piangere, quando muore una persona a noi cara: spesso, è quasi un sollievo pensare che abbia smesso di soffrire, tuttavia, tale pensiero non basta mai a consolarci e le lacrime sgorgano inevitabile al ricordo di quel contatto che la morte ha tranciato, inesorabilmente. È per questo motivo che possiamo, quindi, dedurre che il massimo distacco sia quello che viviamo da Dio: veniamo da Lui e a Lui aneliamo di ritornare, nonostante le tante altre bellezze sul nostro cammino, la nostalgia più grande rimane nei confronti della Bellezza, anche quando non siamo in grado di riconoscerne l’oggetto del desiderio.
La Pasqua s’inserisce opportunamente in questo tempo, che qualcuno ha definito “sospeso”, perché ha comportato la modifica di molte nostre abitudini, ricordandoci, da una parte, quanto siano ridicoli i nostri progetti (che facciamo, quasi inconsapevolmente, dimenticandoci di tener presente che il Tempo è Dono e nessun secondo va dato per scontato), dall’altra a quale grandezza siamo chiamati. Abbiamo nostalgia della grigliata di Pasquetta, del pranzo di Pasqua, del cinema, della birra con gli amici, del teatro. In realtà tutto ciò, anche quando non ce ne rendiamo consapevoli, è la nostalgia dell’Amore infinito di Dio e nella bellezza dell’Abbraccio del Padre, che è perfetta Comunione, in un tempo che sfocia nell’Eternità.


 Fonte immagine: Fineartamerica

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