Francesco Kyrill

Nelle loro possibilità materiali giace un’immensità ciclopica in quanto a bellezza e attrattiva: un indice d’incanto, di lucentezza che non tiene e non teme paragoni sulla faccia della terra. Sommando l’Oriente e l’Occidente, il risultato finale è la storia dell’intera bellezza, che è patrimonio mondiale del pensiero umano. Sarà forse per questo che la leggiadria di un dipinto, l’avvenenza di una scultura, la grazia di una sala favoriscono la distensione, allentando l’ansia. E’ anche per questo che tutti i grandi incontri sono circondati da una cornice d’immane bellezza: giardini, musei, sale damascate. Può, dunque, un aeroporto tramutarsi nella scenografia più adatta per accogliere non l’incontro dell’anno, nemmeno quello del secolo, bensì l’incontro del millennio?
Da venerdì sera l’aeroporto Josè Martin dell’Havana, piena zona caraibica, è diventato il sacrario di un incontro di grazia tra papa Francesco e Kirill, il patriarca di Mosca e di tutta la Russia. Un incontro che affonda la sua ragione nelle ceneri e nella memoria di uno scontro datato 1054, quasi mille addietro: uno scontro che divenne separazione, frattura, sofferenza. Mille anni passati a mandarsi a dire reciprocamente “tocca a te” per sentirsi rispondere “no, tocca a te”. Dove “toccare” più che di manualità odorava quasi d’umiliazione, un quasi-sinonimo di “abbassati, chiedi scusa”. Dove incontrarsi, dunque? La risposta l’ha accesa Francesco nel novembre scorso quando, rincasando da Istanbul, fece sapere al patriarca Kyrill le sue preferenze, anticipandolo: «Io vengo. Tu mi chiami e io vengo, dove vuoi, quando vuoi». Se è vero, nelle logiche dei voli aeronautici, che ogni decollo è opzionale, è altrettanto vero che ogni atterraggio è obbligatorio. Francesco lancia la sfida, Kyrill la raccoglie: né a Roma, né a Mosca. Bensì a Cuba, nello scenario meno impensabile per fare da sfondo ad un incontro dal peso millenario. O, riflettendoci a posteriori, nello spazio più denso di simbolismo e d’audacia: un aeroporto, infatti, è terra di passi e di passaggi, terra di arrivi e di partenze, spazio d’incroci e occasione d’incontri inaspettati: “Pensa te, ci siamo ritrovati in aeroporto”, si dicono sovente due amici quando, imbarazzati, a tutto pensavano eccetto che di ritrovarsi proprio là.
Proprio là, in mezzo all’oceano, dentro un aeroporto. Il punto-panoramico dal quale sfatare ciò di cui era sicurissimo A. Bloch: «Se sei in anticipo, (il volo) sarà cancellato. Se sei puntuale, dovrai aspettare. Se sei in ritardo, sarà troppo tardi» (La legge di Murphy II). Stavolta si è trattato di anticipo? Non sembra proprio: sono trascorsi novecentosessantadue anni. Di ritardo? Ne sono passati così tanti: uno-in-più cosa cambierebbe? Di puntualità, allora? Parrebbe proprio di si, alla faccia della snervante attesa. Dove la puntualità ha connotati botanici più che cronologici. Quando un frutto è maturo, occorre essere puntuali a coglierlo: lasciarlo un giorno in più è aiutarlo a marcire. Coglierlo un giorno prima è bloccargli la maturazione. Saperlo cogliere nell’attimo esatto è avere la possibilità di gustarne la vera bontà, la squisitezza massima di quel frutto. Mica da uomini, però, questa puntualità: «E’ chiaro che questa è la volontà di Dio», han subito messo in chiaro, senza usare le mezze parole della diplomazia.
Nell’imprevedibilità aeroportuale, dunque, s’è svolto l’incontro del millennio. Non una telefonata, nemmeno una missiva, figurarsi una conferenza via-skype: c’era la necessità fisica di rispondere al peso di uno scontro con il rischio di un incontro. Un faccia-a-faccia, uno stringersi vicendevole, un guardarsi dritti negli occhi: per archiviare definitivamente certi incidenti, non basta la bravura degli avvocati. E’ necessario che le parti si re-incontrino di persona: perchè, in certi frammenti, il non-detto è assai di più delle dichiarazioni-congiunte alla stampa.

(da Il Mattino di Padova, 14 febbraio 2016)

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