parole

Talune sono sensuali e inarrivabili: colpiscono come un dardo infuocato il cuore e fanno perdere letteralmente la testa. Altre passeggiano sul palcoscenico della storia irriverenti e contagiose, spavalde e forsennate, audaci e colorate. Qualcuna tiene i lineamenti della delicatezza e della discrezione, della magia e della seduzione, dello stupore e della gaiezza. Altre, per contraccolpo, sono capaci di infamia e tradimento, di sospetto e di menzogna, di miseria e di nobiltà decaduta. Dal sorgere dell’umanità a loro s’aggrappano un po’ tutti: poeti e delinquenti, pittori e scippatori, musicisti e profani. Per non parlare dei contadini e delle massaie, dei politici e degli ecclesiastici, degli zingari e dei mercanti. C’è chi di loro tiene una padronanza disarmante fino al punto da sceglierle come inimitabili alleate alla conquista del mondo; chi, al contrario, ha deciso di snobbarle fino a profanare la loro nobile origine, un giorno cadrà preda di loro stesse. Non contano i lineamenti: quanto sono alte, se sono giovani o vecchie, se sono grasse come un armento o filamentose come una libellula. Ciò che conta è il potere che hanno nelle loro mani: a volte basta poco più di niente – quasi contemplarle ridotte all’osso o striminzite assai – per capacitarsi del peso inimitabile che tengono in grembo. Preferiscono il femminile quando le si declina; ma da quando pure Dio scelse d’inabissarsi in esse, da quel giorno non conta il genere: ciò che conta è l’uso più o meno corretto che di esse l’uomo decide di fare.
La loro specialità sta tutta nella destrezza con la quale toccano i cuori. Capita così di vederle all’opera mentre risvegliano, provocano e fanno nascere. Ma anche quando interpellano, scuotono, allargano gli orizzonti. Mettono in piedi e riaccendono storie di uomini e di donne sotto il Cielo. La Parola di Lui – quella che la domenica viene proclamata nelle navate – fu il momento massimo di gloria della loro stirpe: nessun uomo prima del Nazareno aveva scelto di far abitare l’Eterno nella ristrettezza angusta di qualche sillaba. Contemplandole all’opera, il salmista – che di parole, note e sfumature teneva perfetta padronanza – vedeva le cerve partorire e le saette guizzare, tanto che le paragonò ad un tuono per la forza che tenevano: “saetta fiamme di fuoco, scuote la steppa, scuote il deserto di Kades, fa partorire le cerve e spoglia le foreste” (Sal 29). Oggi si lamentano in coro: “ci state maltrattando”. E forse un pizzico di ragione va loro concessa: perché della maggior parte di esse non si reca più frequentazione. Si va a braccetto con le solite quattro, si decanta quel gruppetto divenuto di moda nel vocabolario e, sovente, le si adotta per rinfocolare i luoghi comuni. Eppure, se loro potessero, racconterebbero l’angoscia dei luoghi comuni: è il parcheggio nel quale si sentono davvero spogliate della loro primigenia bellezza. Spogliate e violentate.
In Chiesa le hanno imprigionate: su qualcuna è stato addirittura emesso un mandato di cattura: chiedete alla “bellezza”. Cacciata lei, anche la Verità è divenuta incomprensibile: troppo alto il rischio di far perdere la rotta al potere. Tocca al Papa rievocare la nostalgia di ciò che s’è perduto: “il vero dramma del cristianesimo oggi è la tiepidezza”. Lui lo dice angosciato, dispiaciuto, convinto: eppure per vincere la tiepidezza occorrerà chiedere scusa alle parole “calde” che abbiamo denigrato. Quelle parole simili alle conchiglie perché capaci di far percepire la voce del mistero: fiori, stella, mistero, sorgente, fanciulla, fulmine, respiro, quiete. A Padova è in corso la Fiera delle Parole; la Chiesa risponde con la Liturgia della Parola. A parole tutti le offrono spazio: loro chiederebbero di essere poi lasciate libere di lavorare. Per riaccendere l’umano che s’è assopito.

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