Le parole sono come delle conchiglie che le onde trasportano sulla riva, «dentro le quali risuona il vasto mare dell’infinità». Oppure sono come delle «farfalle morte, infilzate nelle vetrine dei vocabolari». O conchiglie o farfalle infilzate: a che serve la bellezza se hanno perduto la potenza del linguaggio? Per Rahner, teologo gesuita, non c’è una terza possibilità nell’esistenza delle parole: l’unica che sia degna d’essere definita tale è quella che, pronunciandola, è capace di tenere unita la totalità, di riunificare l’esistente, di far vedere il tutto nel frammento. Anche il Dio cristiano, un giorno, decise di farsi parola: divenne Parola con la maiuscola. Forse non fu proprio una decisione di passaggio se è vero, come sostiene il popolo suo seguace, che in campo rivestito di grano, Gli riuscì di mostrare il tutto dell’eternità.
Una parola è poco più di nulla, un’essenza mingherlina, quasi irrisoria, eppure capace d’irriverenza: è un insieme di suoni, una cucitura di sillabe e di vocali, un miscuglio di segni. E’ quel poco che basta – quand’essa appare nelle vesti di parola-conchiglia – per raggiungere il cuore e riscaldarlo: ogni sillaba è sempre anche una richiesta di bellezza, di unità, di radiosità. Una richiesta di domande che tengano accesa la vita: «Per sentire cose nuove bisogna porre domande nuove» ha detto Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la Letteratura 2015. Le parole-conchiglia sono brucianti e dolorose: magari è una sola parola, ma dentro ha l’abbondanza di un collage di cori individuali, di piccoli dettagli del quotidiano. E’ quando racchiude in sé la vita che una semplice parola diventa parola-di-vita: occasione di riflessione, pietra d’inciampo, palla luminosa che ispira al pari di una musa. Ne basta una per sentirsi riempire l’animo: «fiori, notte, stella, giorno, radice, fonte, vento, sorriso, rosa, sangue, terra, fanciullo, bacio, fulmine, respiro, quiete», ancora a scuola da Rahner.
La “Fiera delle parole”, che ancora una volta è andata in scena a Padova, è tutto questo moltiplicato per ogni animo che si è lasciato interpellare dalle parole, dagli incontri, dagli scontri: un tentativo sublime di tenere assieme la vita e il sapere, ciò che è sotto gli occhi di tutti e ciò che solo il poeta riesce a cogliere, il tutto della verità nel frammento della ferialità. Il mondo in un granello dentro un granello di sabbia, in un granello di senape. E’ quella che il salmista tratteggia con parole guizzanti e quasi beffarde, la parola che «saetta fiamme di fuoco, scuote la steppa, scuote il deserto di Kades, fa partorire le cerve e spoglia le foreste» (Sal 29). Rimettere la mano e il cuore nelle parole rimane l’occasione per tornare a gustare la freschezza di una parola primigenia, colta nell’attimo stesso in cui nasce, prima che venga resa logora dall’uso e qualcuno la trasformi in uno slogan. Per poi, raccoltane una, accorgersi che educare le parole è educarsi alle parole, anche diventare gente educata di parola. L’educazione della parola è, forse, la forma più nobile dell’educazione civica di un popolo. E’ l’onorabilità che rende onorevoli.
Ognuno di noi ha sentito in vita sua un’infinità di parole stupide, più o meno in quantità equivalente di parole nobili. Le ultime non nascono nelle strade del fracasso, dentro il frastuono delle urla o nelle aule delle ripetizioni. Nascono dall’ascolto, dall’essere stati a lungo ad ascoltare i dettagli, a cogliere le sfumature, ad affinare l’udito. Chi riesce nell’ascolto, sarà capace di parole vertiginose, parole-sintesi che per tradurle occorrono righe di parafrasi. Forse è per questo che qualcuno, per una parola, lascia il sangue. Il “diritto alla parola” non è il diritto a sparare la prima cosa che ti passa per la testa: è la chance che ad ogni bambino dev’essere assicurata per mostrarsi poeta o cialtrone.
(da Il Mattino di Padova, 11 ottobre 2016)
«La parola di Dio! È un ferro rovente la parola di Dio. E tu che la insegni vorresti pigliarla con le molle per non bruciarti, non la afferreresti a piene mani? Lasciami ridere: un prete che scende un po’ ringalluzzito ma contento dal pulpito di Verità, con la bocca a culo di gallina, non ha predicato, ha fatto le fusa se mai. Bada che può capitare a chiunque: siamo dei poveri dormienti, e certe volte che fatica del diavolo svegliarsi! Anche gli apostoli, comunque, dormivano a Getsemani. Ma insomma bisogna distinguere. E capirai anche che chi si scalmana e suda come un facchino non sempre è più sveglio degli altri, no. Dico soltanto che quando per caso il Signore mi cava fuori una parola che è utile alle anime, la capisco dal male che mi fa»
(G. Bernanos, Diario di un curato di campagna)