Ha la passione dell'imprevisto. È un Dio in agguato

umiliataMi sembrava ancora di vederla ieri sera la Cecilia*: in sella al suo motorino scassato, colma di borse della spesa, con un sorriso di mistero dipinto sul suo volto di donna. La Cecilia e Devid: anche lui in motorino, spesso a spingerlo più che a farsi portare. Tutti e due, magari, senza benzina, senza olio e col vento contro: quando la Natura s’incattivisce, nessuno riuscirà a reggerne il passo. Un motorino e via: ognuno per la sua strada. Chi a riderci dietro, chi a porgerle una mano, chi a ficcarsi dentro il mistero di una vita che non c’appartiene e che, dunque, rimarrà sempre di proprietà del Cielo: incomprensibile, ostica da tradurre, impensabile da comprendere appieno. Storie di povertà e di miseria che il Cielo custodirà ad oltranza. Victor Hugo, il papà letterario di quello splendido romanzo che furono I miserabili, scrisse: «Ah! Non insultate mai la donna che cade! Chissà sotto quale fardello quella povera anima soccombe!» Chi toccherà queste storie – per curiosità, per noncuranza, per pura voglia di curiosare – rischierà di rimanere fulminato. Per i poveri, invece, ci sarà sempre un Dio a disposizione: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Un Dio povero, scalzo, coi fianchi smunti dal troppo vagare.
Ogni paese ha una sua storia. Eppure la storia di un paese non nasce dalle pietre, è la gente che scrive la storia: quasi un gesto di riconoscenza per essere stati ospitati da una terra come da una madre. Storie di chi ha letto milioni di libri e storie di chi non sa nemmeno parlare: storie di chi ha spinto il suo motorino perchè ha finito la benzina. E’ per questo che la storia da i brividi: «Entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione» (F. De Gregori). E nella grande storia di Calvene, sommessamente anche Cecilia ha scritto la sua storia: una storia di periferia e di miseria, di mistero e di silenzi, di parole e di sguardi. Una storia che è rimasta fedele al nome che le è stato messo il giorno nel quale è nata: in latino Cecilia significa cieca, invisibile. Proprio come lei, che amò rimanere invisibile per lunghi anni della sua vita: il mistero che ha sempre aleggiato attorno a lei, quei lunghi silenzi conditi da imbarazzi e confidenze, quel suo comparire e scomparire tra le strade di Calvene. Invisibile e, forse, cieca. Resa cieca da chissà quali misteri del cuore umano: cieca di fronte a chi le tendeva una mano, a chi voleva porgerle un aiuto, a chi con semplicità cercava d’accostarla. Forse anche d’addomesticarla. Invisibile e cieca, eppur donna, donna e madre: un mestiere, quello di madre, che non s’apprende in nessuna scuola ma s’impara andando sempre un po’ allo sbaraglio. Un mestiere nel quale s’impara anche sbagliando, si ama anche fallendo, ci si ritrova anche perdendosi. Cieca e invisibile, eppur parte anche lei di una storia d’amore con Dio. Sopratutto lei. Del Vangelo mica devono provare paura i peccatori: non s’era mai sentito prima di Cristo un annuncio “su misura” per chi è caduto nelle trame del peccato. Del Vangelo, oggi come agli inizi, il solo popolo che proverà angoscia e tremore sarà quello che si pensa giusto e immacolato: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perchè hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Così è piaciuto a te». Nascoste ai sapienti, manifeste ad altri: ai poveri, ai peccatori, agli uomini e alle donne guaste dei Vangeli.
Quelle che, sotto la Croce, decidono di non scappare: di star vicino a quell’Uomo sfigurato e reietto. Messo alla berlina nelle strade condite di fede di Gerusalemme. C’è un piccolo particolare che m’ha sempre incuriosito nella piccola storia di Cecilia: l’unico giorno nel quale la si poteva scorgere tra i banchi della nostra chiesa era la Domenica delle Palme. Lei stessa me lo confidò quando, vestita a festa come una regina, volle esserci il giorno della mia prima messa. Fossi pittore la vorrei ritrarre così: “donna della domenica delle Palme”. Quando Cristo è tratto in inganno, quando inizia la sua sofferenza turpe e vergognosa, quando stargli vicino significa “essere dei suoi”. Quando dietro gli applausi di chi dice d’amarlo si nasconde la diavoleria di chi, tempo qualche giorno, lo tradirà: per trenta denari e gli uomini vendono gli amori. Venderanno pure Cristo. Cecilia è tutta qui: spingersi oltre è osare troppo. E’ rischiare d’ingannarsi, d’ingannare, di giocare: e tutto questo più che ingiusto sarebbe meschino. Certe cose sono per chi è piccolo: nel cuore, nella mente, nel fisico e nella storia: «Queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Così è piaciuto a te». E’ permesso guardare la sventura a tradimento solo per soccorrerla. Tutte le altre volte è ingordigia: si può essere soli nel desertom ma si può essere molto più soli in mezzo agli uomini.
Una storia, la sua storia, che era sotto gli occhi di tutti e rimarrà nella memoria di molti. C’è uno spettacolo più grandioso del mare ed è il cielo; c’è uno spettacolo più grandioso del cielo, ed è l’interno di un’anima. Un mondo, quello di Cecilia, che lei amò rendere impenetrabile, fin quasi eremitico. Un mondo fatto di piccole cose, di piccoli cuori: quello del marito Franco e del figlio Devid. Una donna con la sua umanità scarna ed essenziale: come tutte le anime fragili, esposta al pericolo, al ridicolo, alle prese in giro. Eppur donna: nei Vangeli la miseria è il terreno nel quale sboccia la misericordia, il dramma è il preludio della grazia, l’angoscia è la madre della consolazione. Basta vederci chiaro: per chi ha mira, basta un colpo solo. Come al ladrone in punto di morte, come alla Maddalena dei sette demoni. Come con Zaccheo, l’emoroissa, le prostitute e le sgangherate delle quali i Vangeli conservano gelosa memoria. Storie che i Vangeli mettono a disposizione di tutti per aiutare il mondo a diventare più umano, a vedersi migliore. E’ stupenda la manovalanza d’amore – sempre discreta, puntuale e rispettosa – ch’era nata attorno alla difficile umanità di Cecilia: la presenza dell’Amministrazione Comunale, degli assistenti sociali, di chi – seppur anonimo e magari all’ultimo istante – ha lasciato un tocco d’amore attorno a quella creatura. Ci sono giorni nei quali essere uomini e donne altro non significa che apprendere che la suprema felicità della vita è essere amati per quello che si è. O, meglio, di essere amati a dispetto di quello che si è.
A noi, oggi, spetta il commiato: un ultimo gesto d’amore e di passione verso questa donna, questa mamma, questa creatura. Un gesto di compassione che, un giorno, altri faranno a nome nostro. Una preghiera accanto alla sua bara. Magari prendendo a prestito dal salmista quelle parole tanto care nel momento della resa dei conti: «Se consideri le colpe, Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono; perciò avremo il tuo timore» (Sal 129). A chi l’ha amata, a chi s’è preso cura di lei, a chi l’ha accompagnata nell’avventura della vita, di lei ricorderà quel suo spingere il motorino quando rimaneva senza benzina. L’alternativa era buttarlo nel fosso: i poveri non lo faranno mai. Loro insegnano che, pur sgangherata, la vita è sempre vita. Da vivere fino in fondo. Magari anche spingendola, costi quel che costi.

* Omelia tenuta da don Marco Pozza in occasione del funerale di Cecilia, donna di Calvene (VI) trovata morta in una delle più profonde solitudini umane.

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