Che suggestione se, a gara compiuta, il cronometro registrerà 9’71”: sarà nuovo record del mondo! In caso contrario durerà nelle gambe muscolose del giamaicano Usain Bolt che il 31 maggio scorso a New York abbassò il precedente record di 9’74”, proprietà di Asafa Powell. Storie di centesimi, di millimetri, di spazi minuscoli che l’umana vista non riesce a sequestrare. Eppure sta tutto lì, concentrato nella stordente ricchezza di un istante, la magia unica e il rischio disumano della sfida olimpica. Non serve arrivare un’ora più tardi, o un quarto d’ora, o i soliti cinque minuti. Nemmeno un minuto, manco un secondo. A volte ciò che divide il vincitore dallo sconfitto è un centesimo. Sarà medaglia d’argento, che è diversa dall’oro. Perché nello sport abita una strana prospettiva: il secondo arrivato è il primo degli sconfitti.

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Problema di un centesimo. Ma a prendere in mano quel centesimo s’avverte una scottatura. Perché solo l’atleta sa dirti cosa abita in quel minuscolo spazio. I 100 metri: un viaggio che dura meno di dieci secondi. Eppure c’impiegano quattro anni – il tempo che spazia tra un’olimpiade e l’altra – per preparare e riparare quei dieci secondi. 48 mesi in cui il fisico presenta un preventivo crudele: allenamenti sfibranti e diete ferree, prove di materiali e verdetti di cronometro, strategie e previsioni, rifiniture e massaggi, sfide a distanza e proiezioni sul computer. Studio delle pulsazioni, della postura, delle braccia. Calcolo del vento, della posizione ai blocchi, della tensione all’attesa. Il fisico ha il suo prezzo, ma la mente non è da meno perché alla fine è lì che se ne sta nascosta la magia di uno scatto, di un salto, di un colpo di reni sulla linea del traguardo. Questione di brillantezza. E la mente impone silenzio e concentrazione, passione e costanza, sacrifici e applicazione, perseveranza e assiduità. Un’educazione al dovere, alla passione, ai sentimenti. Perché basta un cuore triste, un colpo d’aria distratto, un passo disattento per bruciare mesi d’oculata preparazione. Ecco perché certi attimi regalano la potenza di una fucilata. Tanto che pure lo stadio assiste attonito con un silenzio inusuale. Divenne celebre il barone francese Pierre de Coubertin (1863-1937) per quella frase rubata ad un vescovo della Pennsylvania: "l’importante non è vincere ma partecipare". Ma a scrutarli è difficile credere che un atleta varchi lo stadio ammantato in quest’intenzione: nemmeno all’inizio l’importante era partecipare. Si giocava per vincere: tanto che a fine gara gli atleti battuti si ritiravano senz’indugio per lasciare al vincitore gli applausi e le acclamazioni dei 40.000 spettatori.
Il gesto atletico somiglia troppo alla vita per occultarne l’impareggiabile paragone. Pure il Paolo apostolo, a vita conclusa, trafugò nello stadio per firmare il suo testamento: "Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta solo la corona di giustizia che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà in quel giorno" (2Cor 4,7-8). Perché l’esistenza conosce attimi che chiedono allenamenti e attese: un appuntamento, un colloquio, un esame. Un matrimonio, una gravidanza, un sacerdozio. Ma anche uno sguardo, una dichiarazione d’amore, una telefonata. Un sorpasso, una ritirata, uno scatto.
E’ destino assegnato alle cose grandi l’esigente pretesa. Sia una gara o un’esistenza poco importa: è sempre e solo questione di attimi. Magari inavvertibili ma fatali per saperti vincitore o vinto. Sotto la statua di Jim Larkin, sindacalista irlandese, campeggia una scritta: "The great appear great because we are on our kness: let us rise" ("il grande appare tale perché siamo inginocchiati: alziamoci").

Alle 08.08 dell’08.08.’08 s’è acceso il braciere a Pechino.
Alle Olimpiadi non s’improvvisa nulla. Numeri compresi!

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